Tre interpretazioni del film del secolo
di Luigi Sepe Cicala
Ieri ho visto il mio primo film di Lynch. È stato un battesimo solitario, devo dire, vissuto in un silenzio quasi tombale (non solo nella sala ma anche fuori: avvolgeva tutto il cinema, e la piazza desolata attorno e, probabilmente, il quartiere intero) in una sala semideserta della periferia di Bergamo. Va bene vedere Lynch, mi sono detto, ma vuoi mettere vederlo di sera, in un cinema avvolto dalla nebbia, proprio di fronte alla vecchia centrale elettrica abbandonata? La proiezione inizia bene, l’atmosfera sembra un po’ quella di un film gangster anni ‘80-’90 ma io sono fiducioso: so – perché me lo hanno detto, me lo hanno assicurato – che non si tratta di un poliziesco, né di un banale thriller, ma di qualcosa di molto più raffinato. Mulholland Drive – un nome che anche adesso non so scrivere, e che di sicuro non pronuncio correttamente – è del resto un titolo evocativo.
Per chi non lo sapesse, il film inizia con una delle due protagoniste – la bellissima Laura Harring – che percorre la strada (da cui il titolo) di notte, sui sedili posteriori di una limousine. Sembra una di quelle signorine che i boss della mafia fanno accompagnare dai loro scagnozzi nella loro residenza fuori città. Fin qui, tutto liscio, ma improvvisamente la macchina accosta e uno dei due scagnozzi intima alla signorina di scendere, puntandole contro una pistola. Proprio in quel momento, però, la limousine viene colpita da una macchina lanciata a folle velocità in controsenso. A salvarsi sarà solo la protagonista, che in uno stato di semi incoscienza molto simile al sonnambulismo inizia a camminare seguendo le luci della città lontana. Da qui, in un crescendo, l’azione diventa sempre più confusa, tanto che ad un certo punto si fa fatica a pensare tutti i personaggi (e le differenti storie di cui sembra composto il film) come parte di un’unica narrazione coerente.
Dicono che Lynch sia così, che vedendo i suoi film non bisogna cercare di estrapolarne un significato, eppure io inevitabilmente, un po’ per carattere un po’ perché ormai mi sembra una sfida, ci provo, non sia mai ci riesca.
Nella sala saremo sette, forse otto me compreso. Una coppia di anziani dietro le mie spalle – lei tossisce in continuazione, ma di restare a casa di sabato neanche a parlarne – una coppia di giovani fidanzati sulla sinistra, e due teste calve proprio davanti ai miei occhi. La sala del cinema è ben riscaldata e le immagini che sfilano sullo schermo sono fin troppo nitide; fuori, invece, la nebbia avvolge tutto, il freddo entra fin nelle ossa, e l’unica luce nella piazza deserta è proprio quella della nostra biglietteria.
1ª interpretazione del film: Il “sistema Hollywood”
La prima interpretazione che mi sento di dare – ma proprio prima prima, quella che mi balena alla mente mentre ancora sono seduto nella sala e un po’ guardo lo schermo un po’ rifletto – è che tutto il film non cerchi altro se non di rappresentare, trasfigurandole, le dinamiche semi-mafiose del cinema hollywoodiano (del “sistema Hollywood”): la strada – Mulholland Drive – non sarebbe altro che la strada verso il successo (che tanti imboccano senza arrivare a destinazione); i due sgherri con la pistola non sarebbero altro che, trasfigurati, due assistenti alla regia molto persuasivi, due tirapiedi di un produttore/imprenditore senza scrupoli; le intimidazioni, gli inseguimenti, ecc. non rappresenterebbero altro se non, fra le righe, tutte le pressioni e le peripezie che un regista hollywoodiano – Lynch stesso – deve abitualmente superare per portare a casa uno dei suoi film. Insomma, Mulholland Drive, concludo con un pizzico di compiacimento a solo mezz’ora dall’inizio, non è che una grande trasfigurazione del “sistema Hollywood”, un film che strizza l’occhio allo spettatore-tipo della gangster movie, facendo in realtà una parodia del genere dal sapore grottesco.
Eppure, questa mia prima interpretazione va a farsi benedire man mano che il film continua, e precisamente si infrange contro qualcosa di ben più complesso quando l’altra protagonista – Naomi Watts –, quella “raccomandata”, piuttosto che (come mi sarei aspettato) recitare male ai provini per un’ennesima grande produzione, recita fin troppo bene. E allora, pian piano, inavvertitamente, tutto si sdoppia, si triplica, si deforma (si scopre, ad esempio, che i provini sono in realtà due e che anche le attrici bionde che vi devono partecipare sono due) in una quantità di simboli, rimandi, allusioni e frasi in codice cui star dietro è quasi impossibile se non carta e penna alla mano.
2ª interpretazione del film: Un sogno molto vivido
Un’altra interpretazione – uscita questa poi, quando già il film e la sala e la nebbia della sera prima si erano ormai dissipati – è quella del Sogno, formulata il giorno successivo dopo aver chiacchierato con un amico e spulciato un po’ in internet.
In pratica, secondo questa interpretazione tutta la prima parte del film – fino alla scena del teatro e all’apertura della scatola azzurra – sarebbe un sogno di Diane Selwyn, Naomi Watts, la protagonista bionda, la seconda in ordine di apparizione. Dal sogno, una volta aperta la misteriosa scatola, la protagonista bionda si risveglierebbe e, da quel momento in avanti, il film non sarebbe altro che la descrizione della vera vita dell’attrice, una vita a dir poco deludente in cui Diane è nient’altro che una comparsa costretta a recitare all’ombra della grande Rita (mentre nel sogno le parti erano invertite).
Ma qualcosa, molte cose in questa interpretazione non tornano: anche nella seconda parte, a protagonista “sveglia”, continuano le sovrapposizioni temporali, i rimandi, le volute incongruenze, gli elementi surreali tipici del sogno.
3ª e ultima interpretazione: La dedica prima dei titoli di coda
L’ultima interpretazione è in realtà la seconda in ordine di “apparizione”, e mi assale come un tetro dubbio sulla via del ritorno verso casa.
È una cosa a cui gli amici con cui ho parlato non hanno fatto caso, ma, in realtà, dopo l’ultima parola del film («Silencio!») e prima dei titoli di coda, una piccola scritta ci avverte che il film è dedicato a Jennifer Syme, con accanto tanto di data di nascita e data di morte tra parentesi. A me, quel nome continua a rimbombare nella testa per tutta la strada del ritorno, la strada desolata verso casa.
Non può essere una coincidenza, penso: un film dedicato a una ragazza morta tragicamente, la cui protagonista muore.
Una volta rientrato, mi metto a cercare su internet e noto che anche a qualcun altro è venuto lo stesso dubbio. Cercando, trovo anche la foto di questa Jennifer Syme. È davvero troppo simile a Rita, la protagonista Bruna, la ragazza che all’inizio del film scende dalla limousine e inizia a camminare verso la città come in un sogno, per essere un particolare irrilevante. Poi, cerco i motivi della morte della Syme: incidente stradale. Troppo, penso, per essere soltanto una coincidenza.
Jennifer Syme muore nel 2001 (l’anno di uscita di Mulholland Drive), una notte, schiantandosi contro un’auto parcheggiata nel tentativo di tornare a casa di un amico – Marilyn Manson – dove c’era una festa da cui era andata via poche ore prima.
All’inizio del film, come sappiamo, una macchina si scontra proprio contro un’altra macchina parcheggiata e ad uscirne superstite è proprio Rita, Laura Harring, che miracolosamente sembra non essersi fatta nulla (ha perso la memoria, ma non ha segni visibili dell’incidente) e a cui il destino pare aver donato una seconda possibilità. Rita, a quel punto, dopo essersi guardata intorno come una Alice appena approdata al Mondo delle Meraviglie, inizia a camminare attratta dalle luci della città lontana. La mattina seguente, si rifugerà nella casa dove poi incontrerà Diane, Naomi Watts.
Su internet qualcuno dice che Naomi Watts è molto simile alla ragazza bionda, presente quella sera a casa di Manson, con cui Keanu Reeves aveva appena iniziato una relazione, dopo essersi lasciato con la Syme. Qualcun altro su un forum si domanda: «Lynch vuole per caso darci una pista alternativa, una spiegazione diversa (da quella ufficiale dell’incidente) della morte di Jennifer Syme?». E allora il film si tinge di giallo e l’interpretazione giusta potrebbe essere: la Syme (come fosse una di quelle ragazze ubriache che nelle prime scene si scontrano con la limousine) va a sbattere contro un’auto parcheggiata ma, al posto di morire, si trasforma nel suo alter ego cinematografico, Rita, e in una sorta di sogno (o di limbo ante mortem) riesce finalmente a tornare alla casa dove la sera prima c’era stata la festa. Lì incontra una donna bionda che sostiene di non conoscerla e che la aiuta a ritrovare la memoria, che persino si innamora di lei, la stessa donna che in realtà l’ha uccisa… Proprio a teatro (teatro che nel film potrebbe simboleggiare il cinema), Rita trova la scatola azzurra che una volta aperta le svelerà la realtà: a quel punto Diane si sveglia e tutto si chiarisce. Lynch ci vuole forse dire che, come nel film il teatro, nella realtà è proprio il film ad offrire una “chiave” per risolvere l’enigma dell’incidente? E quel barbone dietro al muro, che alla fine del film vediamo giocare con la scatola azzurra fra le mani, non è proprio il regista stesso, colui che gioca a costruire enigmi? E, ancora, l’ultima parola del film, «Silencio!», oltre a essere la parola con cui si chiede agli spettatori di non fare rumore prima della proiezione, non può alludere forse (in maniera provocatoria e grottesca insieme) all’omertà generale sulla vicenda Syme?
Ma anche quest’interpretazione va a farsi benedire velocemente perché: a) nel 2001, quando Jennifer Syme muore in un incidente stradale, il film doveva essere già stato girato o, almeno, già stato scritto; b) senza conoscere bene le vicende reali (o presunte tali) si rischia di essere molto arbitrari e, trascinati da una suggestione, di considerare “indizi” quelli che in realtà sono soltanto elementi di una trama molto ma molto complessa.
La sensazione è che Lynch voglia rappresentare la complessa rete di rimandi e di influenze reciproche fra inconscio, mondo dell’arte e vita vissuta, con un film che non si accontenta di terminare con i titoli di coda, ma che vuole continuare a proiettarsi nella mente dello spettatore anche a luci della sala ormai spente. Una specie di sogno vivido, che non smette di bussare alla coscienza anche quando si è ben svegli, anche quando si è sicuri di essersi lasciati la biglietteria alle spalle, e le strade alle spalle, ed il cinema non è niente più che un bagliore intermittente in un passato ormai lontano.