IL CACCIATORE

IL CACCIATORE

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GENERE:        drammatico

ANNO:             1978

PAESE:            USA

DURATA:         183 minuti

REGIA:             Michael Cimino

CAST:              Christopher Walken, John Savage, Robert De Niro, Meryl Streep, John Cazale

Dolente spaccato sulle illusioni infrante di una generazione risucchiata nel buco nero della guerra del Vietnam, Il Cacciatore rimane a distanza di quasi mezzo secolo una delle pietre miliari della storia del cinema.

Pur essendo considerato un punto apicale della Nuova Hollywood, Il Cacciatore – tornato ora nelle sale dopo il restauro in 4k che esalta ancora di più il monumentale lavoro di Michael Cimino dietro la macchina da presa, coadiuvato dal maestro Vilmos Zsigmond alla fotografia -, è un film talmente personale (e di un autore talmente fuori dagli schemi) da costituire opera d’arte a sé stante. Cimino scandaglia – in tre atti diseguali, dove a farla da padrone è una narrazione intrisa di umanitarismo il cui corrispondente letterario si potrebbe situare nelle opere del grande John
Steinbeck – l’America profonda (il film è ambientato a Clairton in Pennsylvania) delle acciaierie, degli operai, degli immigrati, della caccia al cervo, insomma di quel popolo semplice del quale ci si ricorda solo quando c’è da fare qualche sporco lavoro in giro per il mondo.

Si chiamano Mike, Nick, Steven, Stosh, Linda, John, Angela, sono perlopiù di origine russa, e l’autore newyorkese sceglie un momento di vita identitario come la celebrazione del matrimonio ortodosso di uno di loro per fissare una decisiva cesura: la festa sembra interminabile, quasi un loop onirico, il ballo e i canti (memorabile la sequenza intorno al biliardo nella quale gli amici cominciano ad intonare Can’t Take My Eyes Off You seguendo la voce di Frankie Valli alla radio) hanno qualcosa di “stonato” e malinconico (inquietudine corroborata anche dal celebre tema della Cavatina, scritto da Stanley Myers e suonato alla chitarra da John Williams), l’alcool scorre a fiumi come anestetico ma non placa quel sottile malessere fatto anche di non detti nei rapporti interpersonali, con il Vietnam ad aleggiare sullo sfondo; non si vede l’ora di partire ma in realtà non si vede l’ora di tornare, ed è da questo paradosso che si coglie come il Cacciatore sia un film su chi la guerra la sta già combattendo dentro di sé ancora prima di andarla a combattere fuori, perchè, straniero in una terra che offre poco più di una fabbrica dove spaccarsi la schiena circondata da squallore e degrado, cerca comunque di integrarsi introiettando la mentalità del vero americano, quel senso distorto di lealtà e di devozione dietro al quale si cela una pulsione di morte (“un colpo solo”), e di cui infatti scoprirà la falsità sulla propria pelle. Cimino mostra che per sopravvivere in una nazione nata sul sangue, fondata sull’individualismo estremo (al punto di teorizzare la legittimità della difesa a mano armata oltre ogni logica), che manda al macello i suoi figli, anche quelli “acquisiti”, sentendosi protetta da Dio, non si può che ricercare un senso di comunità che trascenda magari quella familiare per sostanziarsi in una sorta di “clan” cementato dall’amicizia virile; dinamica della quale anche le donne sembrano in una certa misura far parte, al di là delle relazioni sessuali o matrimoniali (e quella struggente God Bless America del finale, lungi dall’essere un passaggio “giustificazionista”, è l’amarissimo e sommesso grido di dolore della gente comune lasciata sola e sconfitta ma ancora capace di tirare avanti in qualche modo sostenendosi a vicenda).

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Meno filosofico e teorico di opere come Apocalypse Now e Full Metal Jacket (fatte le debite proporzioni, gli è più accostabile semmai un notevole film coevo come Un Mercoledì Da Leoni di John Milius), Il Cacciatore è però la pellicola che meglio arriva al cuore della tragedia umana, individuale e collettiva, del Vietnam, proprio perchè non parla tanto della guerra in sé (la quale diventa quasi un intermezzo terribile e immaginifico tra il prima e il dopo, ragione per cui è assurdo cercare intenti cripto-razzisti nei confronti dei Vietcong, visto che l’idea della roulette russa è il sostrato metaforico sul quale si sostanzia l’intero discorso che Cimino vuole fare, e non certo il pretesto per accusare strumentalmente un particolare gruppo etnico) quanto del quotidiano di persone che, prigioniere di gabbie mentali e di una narrazione che promette gloria e invece restituisce solo devastazione fisica e morale, cercano in fondo di procrastinare quanto di ineluttabile “sentono” stia loro per accadere (chi razionalizzando ossessivamente come Mike, chi scommettendo e sognando una stabilità affettiva come Nick, chi perdendosi in un solipsismo infantile come Stosh ecc.), trovandosi poi fatalmente alla deriva quando tutto accade; ed è perciò un’opera nemmeno recitata ma proprio, si può dire, “vissuta” in prima persona da un cast di autentici mostri sacri (l’aneddotica sul film è sterminata e meriterebbe una trattazione a parte; vale la pena riportare un paio di famosi episodi: Cimino che chiede a Cristopher Walken di sputare in faccia a Robert De Niro – all’insaputa di quest’ultimo – durante la sequenza della roulette russa per provocare la reazione dell’attore italo-americano; John Savage che, immerso sino al collo nelle acque limacciose e putride, si ritrova circondato dai topi ed urla disperatamente al regista di tirarlo su chiamandolo Mike; quest’ultimo allora, sfruttando l’omonimia con il personaggio interpretato da De Niro, tiene la sequenza e la usa nel montaggio finale) i quali offrono, in un miscuglio di sfida e di complicità che arriva quasi a lambire il martirio (è noto che John Cazale, allora compagno nella vita della protagonista femminile Meryl Streep, partecipò alle riprese nonostante fosse malato terminale di un cancro ai polmoni, con De Niro che si fece carico dell’assicurazione; Cazale morì a film appena ultimato senza neppure fare in tempo a vederlo), una performance corale così realistica e profonda che ha pochi eguali nell’intera storia del cinema (uno dei cinque Oscar vinti dalla pellicola andò allo straordinario Walken, ma tutti avrebbero meritato un riconoscimento), riuscendo a suscitare nello spettatore autentico disagio misto a sincera empatia, proprio perchè non si avverte mai la facile scorciatoia del ricatto morale.

Il Cacciatoreuno dei più lucidi atti di accusa contro l’impostura del cosiddetto “sogno americano”, tema che poi Cimino continuerà a sviluppare nel successivo e altrettanto importante I Cancelli Cielo, film dal percorso tormentato se mai ce n’è stato uno, ora finalmente riportato alla luce nella sua magnificenza originale -, è dunque un’opera che ci parla ancora con una verità e una nettezza che è propria solo di pochi capolavori.