DECISION TO LEAVE
GENERE: thriller, drammatico
ANNO: 2022
PAESE: Corea del Nord
DURATA: 138 minuti
REGIA: Park Chan-wook
CAST: Hae-il Park, Wei Tang, Go Kyung-pyo, Yong-woo Park, Lee Jung-hyun
Amore non è bello se non è... Qualcuno deve morire perchè la scintilla scaturisca e quel certo “non so che” salga come una marea montante, sino a mettere in gioco tutto, salvo poi scoprire che in palio non c'era niente... Giù il cappello di fronte all'ennesima lezione di cinema del Maestro Park Chan-wook.
L’insonne detective Jang Hae-jun, di stanza a Busan, indaga sulla morte di Ki Do-soo, funzionario in pensione dell’ufficio immigrazione precipitato da una montagna; la moglie Seo-rae, un’emigrata cinese enigmatica e molto più giovane del consorte, la quale lavora come badante, viene ben presto sospettata a causa di alcuni lividi sulle mani e sul corpo e della sua apparente indifferenza nei riguardi di quanto successo al marito; Hae-jun comincia a pedinarla e a spiarla nel suo appartamento, rimanendo pian piano conquistato dalla misteriosa e affascinante “normalità” che la contraddistingue; Seo-rae, a sua volta, segue il detective mentre si occupa di un altro caso, in una sorta di dinamica del gatto col topo…
In seguito alla scoperta di alcune lettere nelle quali Ki ammetteva di essere corrotto e sembrava adombrare il proposito di togliersi la vita, Hae-jun chiude il caso catalogandolo come un suicidio, nonostante le perplessità del suo più stretto collaboratore Soo-wan, che lo accusa apertamente di non essere obiettivo nei confronti della donna.
Tredici mesi dopo il detective, in seguito ad un crollo nervoso, si trasferisce a Ipo per stare finalmente insieme alla moglie che lavora nella locale centrale nucleare; un giorno al mercato del pesce incontrano Seo-rae insieme al nuovo marito, un brillante promotore finanziario, scoprendo che anch’essi sono venuti ad abitare lì; poco tempo dopo, però, l’uomo viene ritrovato cadavere ai bordi della sua piscina, così davanti ad Hae-jun si spalanca un inquietante deja vu…
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? Sembra questa, citando Raymond Carver, la domanda che si pone Park Chan-wook nella sua nuova ammaliante fatica, uscita a distanza di sei anni da Mademoiselle; la risposta non può che venire dal cinema: l’amore è voyerismo e vertigine, secondo una lezione hitchcockiana ben presente nell’orizzonte del Nostro (si veda ad esempio il suo film americano Stoker, palese omaggio a L’ombra Del Dubbio), che Park però estremizza sino ad ironizzarvi palesemente sopra, per creare di fatto un qualcosa che prende sì le mosse dal noir e dal melodramma ma giunge ad essere genere a sé stante, come è prerogativa di ogni grande autore. “Perchè ho sposato certi uomini? Perchè un uomo ideale come te non mi sposerebbe; per poterti vedere e parlare deve succedere un omicidio”…
Seo-rae non è più la donna che visse due volte ma quella che potrebbe vivere all’infinito, perchè l’amore, da banalmente “burocratizzato” (come il matrimonio quasi “regolato” secondo criteri “matematici” tra il leale e scrupoloso Hae-jun e la pedante Jeong-an) può “scartare” all’improvviso verso nuovi orizzonti, diventando un “caso” da riaprire di continuo, una sciarada nella quale trattarsi reciprocamente da “sospettati”, anche ai limiti del sadomasochismo (è un po’ lo stesso tema di un altro magnifico film di pochi anni fa, Il Filo Nascosto di Paul Thomas Anderson), e nella quale decidere di volta in volta se prendere o lasciare, visto che manipolare gli altri è anche in fondo un po’ manipolare sé stessi.
Turbamento all’ennesima potenza, dunque: dello sguardo (bisogna sempre mettersi un “collirio” per distinguere ciò che appare irrimediabilmente sfocato…) e del linguaggio, nella frammentazione dei punti vista e della percezione spazio-temporale (ci sono certe soggettive che solo un fuoriclasse della macchina da presa poteva concepire) nonchè nella (in)comprensione reciproca (tra ammiccamenti e cambi di umore repentino, in un dichiararsi senza mai farlo…), con la mediazione degli onnipresenti mezzi tecnologici (smartphone, tablet, smartwatch, pc, videocamere, e chi più ne ha più ne metta, usati per creare voci “off” diegetiche, falsi split-screen, dissolvenze e giochi di specchi mirabolanti) – perchè questa è un’opera allo stesso tempo “retrò” e ultra-contemporanea -; dei sensi, nel piacere e nella seduzione del cibo e del prendersi anche soltanto per mano, ma anche della loro perdita, causata dal non riuscire a dormire e a non controllare il respiro, o ancora dall’altezza di uno strapiombo, col vuoto che diventa quello della propria fragilità interiore…
Park avvolge i suoi protagonisti (gli splendidi Tang-wei e Park Hae-il) e tutti noi spettatori come un serpente tra le sue spire, varia il ritmo dando quasi l’impressione di lasciare spazio all’improvvisazione ma in realtà mantiene il controllo assoluto su uno “spartito” pregno di dettagli e di svolte spiazzanti quando non apparentemente sibilline: così facendo, mediante i soliti preziosismi di regia (per la quale è stato giustamente premiato a Cannes) divenuti ormai marchio di fabbrica – carrellate laterali, zoom, grandangoli, piani sequenza iperbolici, inquadrature che sfruttano la profondità di campo creando un suggestivo effetto “matrioska” -, assecondati da un montaggio (ad opera di Kim Sang-beom) talmente clamoroso da richiedere varie visioni per essere apprezzato in tutta la sua debordante creatività, attua una “scomposizione” e “ricomposizione” di sequenze – si veda ad esempio quella dove cita il suicidio iniziale di Old Boy – che diventa scomposizione e ricomposizione di tutto un universo psicologico (eccezionali in chiave “emotiva” risultano anche i morbidi cromatismi della fotografia di Kim Ji-yong, soprattutto in certi momenti notturni e nel finale mozzafiato con la mareggiata al tramonto, che in un certo senso rappresenta un degno contraltare di quello all’alba di Thirst, altra pellicola su un’unione impossibile).
Decision To Leave è un film sull’implosione dei sentimenti, genialmente in equilibrio tra una superficie algida e cerebrale e un sostrato di bruciante passionalità (qui il fuoco cova sotto la cenere e gli “istinti primari” rimangono in una dimensione “trattenuta”, a differenza del lavoro di Paul Verhoeven col quale condivide una certa affinità concettuale), e rappresenta altresì la conferma che Park va ormai considerato senza tema di smentita come uno dei massimi registi viventi, poiché in ogni sua opera ha contribuito in qualche modo a ridefinire le possibilità e i confini della settima arte: che gli Dei del cinema ce lo preservino a lungo.