COGAN - KILLING THEM SOFTLY
COGAN - KILLING THEM SOFTLY
GENERE: thriller, drammatico
ANNO: 2012
PAESE: USA
DURATA: 100 minuti
REGIA: Andrew Dominik
CAST: Brad Pitt, Ray Liotta, James Gandolfini, Richard Jenkis, Scott McNairy
Siamo nel 2008 in piena crisi dei “subprime” e mentre sta entrando nel vivo la campagna per le elezioni presidenziali: Johnny Amato, detto “lo Scoiattolo”, architetta un colpo ai danni della bisca clandestina gestita da Markie Trattman, contando sul fatto che la mafia darà la colpa dell’accaduto a quest’ultimo in quanto recidivo; il piano, nonostante la poca affidabilità dei due balordi reclutati da Amato, fila via senza intoppi, causando il blocco delle attività illegali e un conseguente danno economico; la “cupola” allora ingaggia il killer Jackie Cogan perchè vada in città e sistemi la faccenda…
Giunta la notizia della prematura scomparsa di Ray Liotta, la mente, nel vagare tra le sue apparizioni più significative, è tornata indietro di una decina d’anni ad un film come Cogan, piuttosto interessante ma chissà perchè presto dimenticato.
Scritta e diretta da Andrew Dominik, regista di origine neozelandese decisamente poco prolifico ma dalle scelte mai banali (ha al suo attivo anche un potente dramma-western incentrato sull’ultimo anno di vita di Jesse James, la regia di alcuni episodi del serial di culto Mindhunter e prossimamente un lavoro sull’ascesa al successo di Marilyn Monroe…), la pellicola si situa in quel filone neo-noir certamente debitore della svolta “pulp” tarantiniana e del cinema di Joel e Ethan Coen, anche se a ben vedere risulta più “asciutta” e personale rispetto a questi modelli; gli ingredienti di massima comunque ci sono tutti: un “plot” che più archetipico non si può (qualcuno ruba dei soldi, qualcun altro li deve recuperare) e una verbosità marcata e venata di humour nero (pur con un certo retrogusto di amarezza e di senso di sconfitta), uniti ad una cifra stilistica non trascurabile, poichè in ogni carrello, in ogni piano sequenza, in ogni dinamica campo-controcampo, in ogni effetto visivo e sonoro Dominik dimostra di avere il respiro del grande formalista – laddove però la forma diviene anche sostanza -; ma Cogan, proprio per questa sua natura fortemente dialogica, è anche, e soprattutto, un film di attori: se nelle peripezie legate al bottino spicca un convincente Ben Mendelsohn (lo sbandato eroinomane Russell), a monopolizzare ben presto la scena troviamo Brad Pitt (qui anche produttore con la sua Plan B) nei panni di uno di quei personaggi “cool” che gli riescono così bene, il sicario lucido e determinato ma con un fondo di umanità (agisce preferibilmente da lontano perchè le vittime non abbiano contezza di ciò che sta per accadere loro, insomma le vuole “uccidere dolcemente” – da qui la seconda parte del titolo -); sono in particolare tutti i suoi siparietti con l’uomo dei boss, il sempre bravo Richard Jenkins (altro anello di congiunzione con il mondo dei fratelli di Saint Louis) a strappare applausi; e poi ecco apparire un James Gandolfini – già icona del gangsterismo sullo schermo col suo Tony Soprano – sfatto e preda di svariate dipendenze, il quale più che recitare sembra mettere in scena il proprio crepuscolo terreno (verrà stroncato da un infarto in una camera d’albergo a Roma neanche un anno dopo l’uscita del film); per arrivare, infine, proprio a Ray Liotta: il “bravo ragazzo” è imbolsito e ormai ai margini della gerarchia criminale, ma Dominik, pur riducendo la sua partecipazione a poco più di un cameo, sembra voler comunque sottolineare l’importanza del contributo dato dall’attore nell’ambito di un certo tipo di cinema; se dunque a Liotta bastano poche battute per ribadire un carisma innato, il regista lo rende non a caso protagonista dei due-tre momenti climax del film, considerando oltre alla rapina iniziale un brutale pestaggio sotto la pioggia e l’agguato mortale reso spettacolare da un montaggio e da un gioco di ralenti molto efficaci e ricercati.
Va anche rimarcata, nella riuscita complessiva dell’operazione, un’intuizione di sceneggiatura notevole e non proprio politicamente corretta (forse da questo è derivata l’accoglienza tiepida della critica mainstream): Dominik trasporta al presente le vicende narrate nel romanzo di George V. Higgins, immerge i suoi personaggi in contesti urbani fortemente degradati e istituisce in sostanza un ironico e allo stesso tempo inquietante parallelismo tra il “milieiu” malavitoso e quello istituzionale, dipingendo così un Paese allo sfascio e senza alcuna speranza; ecco allora che ai discorsi su come uccidere questo e quello o sul fatto che non conti la verità ma l’“opinione comune” si alternano, in chiave diegetica, le “supercazzole” con le quali George Bush Jr. giustifica il fatto di dover mettere una pezza ai danni causati dall’alta finanza – scaricandone naturalmente il costo sui cittadini – e i proclami quasi “messianici” del nuovo fenomeno Barack Obama, con la sedicente rivoluzione dello “Yes we can” espressamente fatta a pezzi da Cogan/Pitt nel monologo finale: perchè è facile parlare di democrazia, di ideali, di comunità – come retorica demagogica impone, dallo schiavista Thomas Jefferson in avanti – quando invece “In America sei solo, non è una nazione ma soltanto affari”.
Sipario.