GHOST SON
GENERE: horror, thriller
ANNO: 2007
PAESE: Italia
DURATA: 96 minuti
REGIA: Lamberto Bava
CAST: John Hannah, Laura Harring, Pete Postlethwaite, Coralina Cataldi Tassoni
Ghost son. Stacey e Mark vivono il loro idillio amoroso in una fattoria isolata all'interno della savana; l'uomo però muore in un incidente stradale ma la compagna continua a percepirne costantemente la presenza, al punto da fantasticare di passare una notte di sesso con lui; un giorno scopre di essere realmente incinta, ma la nascita del figlio Martin non rappresenta di certo una gioia: il bambino infatti comincia a comportarsi in modo strano e violento, come se fosse posseduto da qualche strana entità...
In occasione della serata conclusiva del La Spezia Film Festival c’è stato il gradito ritorno di Lamberto Bava, figlio del grande Maestro Mario e a sua volta importante regista distintosi perlopiù in ambito thriller/horror/fantastico con lavori sia per il cinema che per la televisione ormai assurti al livello di classici quali ad esempio Macabro, La Casa Con La Scala Nel Buio, Demoni, Demoni 2 e cinque stagioni di Fantaghirò.
Ghost Son, proiettato per omaggiarlo, è un’opera piuttosto atipica nella sua filmografia ma molto amata dal suo autore, il quale ha dichiarato che la vorrebbe addirittura citata nel suo epitaffio… L’idea nasce, a suo dire, immaginando un possibile seguito di Ghost – l’acclamato film di Jerry Zucker con Demi Moore, Patrick Swayze e Woophi Goldberg – in chiave più orrorifica; Bava costruisce una storia ambientata nell’Outback australiano, ma alla fine, per esigenze produttive, è costretto a spostare il tutto in Sudafrica; ne approfitta allora per documentarsi sulle credenze locali, soprattutto per quanto riguarda l’animismo e le possessioni, elementi che poi farà confluire nella sceneggiatura, scritta a quattro mani insieme a Silvia Ranfagni con il preciso intendimento – visto il tema trattato e la centralità della figura della donna nella narrazione – di poter contare su un punto di vista femminile.
Il vero colpo di fortuna riguarda però la scelta del cast: a nomi già importanti come John Hannah (visto, tra gli altri, in Quattro Matrimoni E Un Funerale e Sliding Doors), Mosa Kaiser (Hotel Rwanda) e soprattutto il grande Pete Postlethwaite (una carriera al servizio di molti dei migliori registi contemporanei, purtroppo interrotta dalla prematura scomparsa nel 2011) si aggiunge come protagonista la splendida Laura Harring – attrice messicana famosa per aver interpretato la ragazza “mora” nel capolavoro di David Lynch Mulholland Drive – convintasi a prendere parte al film subito dopo aver letto il copione inviatole dal regista; la sua interpretazione, densa di sfumature e piuttosto generosa anche dal punto di vista fisico (non lesina infatti di mostrare le proprie grazie, però mai, va detto, in maniera volgare o gratuita) è sicuramente uno dei punti di forza della pellicola.
Ghost Son è un’opera molto “pensata”, per stessa ammissione del suo autore; Lamberto Bava gira infatti con la cura ed il talento di un regista ormai padrone della propria arte, e la cosa è resa evidente sia in certe panoramiche dei paesaggi mozzafiato sia nei movimenti di macchina più raffinati e creativi all’interno della fattoria, nel momento in cui il film assume tutti i connotati di un kammerspiel claustrofobico; c’è anche molto grande cinema passato in questo lavoro, a cominciare da un soggetto piuttosto simile a quello di Schock, primo film co-diretto da Lamberto insieme al padre, per continuare con omaggi più o meno espiciti al genio di Roman Polanski (si va dal coniglio putrescente di Repulsion a tutta una serie di suggestioni che rimandano inequivocabilmente a Rosemary’s Baby); va detto però che, a dispetto di questa indubbia qualità formale, il film alla lunga soffre un po’ per quanto riguarda il ritmo e risulta eccessivamente “trattenuto” sul versante dell’efferatezza (la produzione voleva probabilmente un qualcosa di fruibile anche da un pubblico più generalista e Bava stesso ricorda di aver dovuto lottare per imporre qualche sequenza “forte”, ma sempre meno di quelle che avrebbe voluto).
A conti fatti va comunque lodato il coraggio con il quale Lamberto Bava ha, nell’occasione, abbandonato la propria “comfort zone” per cimentarsi con una storia che parla di genitorialità, elaborazione del lutto, legami ancestrali, e perciò più ancorata agli stilemi del melodramma intimista.