CANNIBAL HOLOCAUST

CANNIBAL HOLOCAUST

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GENERE:         horror, cannibal movie

ANNO:             1980

PAESE:            Italia

DURATA:         95 minuti

REGIA:            Ruggero Deodato

CAST:              Luca Barbareschi, Francesca Ciardi, Robert Kerman, Salvatore Basile, Paolo Paoloni

Ex assistente di Roberto Rossellini, padre del ‘neorealismo’, ma anche grande estimatore di Jacopetti e dei suoi ‘mondo movies’, che ne rappresentavano in qualche modo una evoluzione in chiave di intrattenimento commerciale, Deodato mischia mirabilmente realtà e finzione mettendo in opera, con venti anni di anticipo, le basi tecniche di un cinema che negli anni successivi si è evoluto, non solo in chiave horror, in ‘POV’ e ‘Mockumentary’.

A metà anni ’90 ‘Cannibal holocaust’ era una sorta di Sacro Graal per gli appassionati del cinema più estremo, un film del quale tutti parlavano ma solo pochi avevano visto.

Al momento della sua uscita si era discusso molto della pellicola soprattutto per alcune vicissitudini giudiziarie che portarono al sequestro dei materiali dopo pochi giorni di proiezione, un sequestro durato diversi anni e passato per vari processi, vicende che contribuirono a limitare pesantemente la diffusione e gli incassi del film. La VHS della Panarecord prodotta negli anni ’80 dopo lo sblocco dei materiali, pur avendo avuto una buona diffusione, non era stata più ristampata ed era ormai diventata difficile da trovare a noleggio, soprattutto nelle videoteche di provincia, e praticamente impossibile da trovare in vendita.

Anche vedere questo film (che era vietato ai minori di 18 anni) in TV, in epoca post ‘legge Mammì’, era una chimera, ed infatti ebbe solamente qualche passaggio notturno su Italia 7 in una versione pesantemente tagliata. Io fui fortunato perché la giusta imbeccata di un amico mi portò in una piccola videoteca della mia città, gestita da un grande appassionato di cinema, un uomo di mezza età che, incredibilmente, la VHS di Cannibal Holocaust a noleggio la aveva ancora, così come aveva centinaia di altre perle rare che non erano state vendute, come consuetudine, a distanza di pochi mesi dall’uscita, quando la gente non le richiedeva più. Senza questo commerciante cinefilo probabilmente avrei dovuto aspettare ancora molto tempo per riuscire a vedere ‘Cannibal Holocaust’, purtroppo però non tutte le storie sono a lieto fine e pochi anni dopo questa ‘scoperta’ la videoteca andò distrutta a causa di un corto circuito elettrico, le fiamme si portarono via in poche ore tutte le meraviglie che il proprietario aveva raccolto in decenni di lavoro.

Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia, e reperire ‘Cannibal Holocaust’ oggi è fortunatamente molto più facile di quello che era allora. Nel 1999 la situazione cambiò quando uscì un film americano, ‘The Blair Witch Project’, ed ebbe un successo clamoroso, il sapiente battage pubblicitario organizzato dagli autori usando, praticamente a costo zero, un mezzo di comunicazione come il web, che si stava affermando in quegli anni, fu la chiave del successo di una pellicola girata (male) da un paio di amici con un budget risibile. Chi aveva già visto ‘Cannibal Holocaust’ e riuscì a sopportare fino in fondo il traballio della telecamera riconobbe nell’opera di Myrick e Sanchez molte somiglianze con il film italiano, e non si parla solamente dell’espediente del found footage, riproposto tal quale, quanto l’uso di una fotografia sporca, delle riprese con macchina a mano e, soprattutto, una scaletta della sceneggiatura totalmente ricalcata, a parere di Ruggero Deodato, sostituendo solamente le scene più brutali con altre più soft. ‘The Blair Witch Project’ ebbe però il merito di contribuire a far riscoprire la pellicola alla quale si ispirava, che negli anni successivi venne finalmente ripubblicata prima in DVD, poi in Blu Ray e persino nuovamente proiettata in alcuni festival.

Proprio in occasione di un festival-maratona iniziato nel primo pomeriggio e conclusosi in piena notte, con tanto di spuntino servito dall’organizzazione durante alcune delle scene più cruente, ebbi modo di rivedere ‘Cannibal Holocaust’ e, diversi anni dopo, in occasione della presentazione di ‘Ballad in blood’ ebbi anche la fortuna di conoscere Deodato in persona e, non senza un briciolo di emozione, farmi autografare il Blu Ray di questa ed altre sue opere, altrettanto notevoli.

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Quattro giovani reporter televisivi statunitensi, il regista Alan Yates, la fidanzata Shanda ed i due operatori Jack e Mark, famosi per la crudezza dei loro servizi, si recano in Amazzonia per girare un documentario su alcune tribù locali che praticano il cannibalismo e spariscono senza dare più notizie.

Dopo un paio di mesi l’emittente per la quale lavorano, la BCD, con il supporto del governo americano, organizza una spedizione di salvataggio guidata dal professor Monroe, accompagnato da una esperta guida locale, Chaco, un giovane mezzosangue indio, Miguel, ed un prigioniero di etnia Tibuna catturato dall’esercito locale. Nel corso del complicato viaggio nei meandri della giungla il gruppetto segue i segni del passaggio della troupe fino al cadavere scarnificato della loro guida, morta a causa del morso di un serpente, proprio nei pressi del villaggio dei Tibuna. Lì Chaco e Miguel contano di ottenere informazioni dai locali restituendo loro il prigioniero, ma l’accoglienza degli indigeni è inizialmente piuttosto fredda e timorosa, il capo tribù gesticolando mostra loro feriti, resti umani e capanne bruciate, facendo capire che nei tragici avvenimenti sono stati coinvolti anche i reporter americani.

Dopo aver ricevuto in regalo da Miguel un coltello a scatto gli indios diventano più concilianti ed indicano ai ricercatori la direzione verso la quale la troupe si è mossa, il territorio dei temutissimi Anamaru, il popolo delle paludi, e degli Shamatari, il popolo degli alberi, cannibali e perennemente in guerra tra loro. Nei pressi di un corso d’acqua Monroe ed i suoi trovano alcuni membri delle due tribù a fronteggiarsi ed intervengono a favore degli Shamatari che rischiano di soccombere, per ingraziarseli.

Gli Shamatari si mostrano molto più affabili di quello che Monroe pensava e li conducono al loro villaggio, ma risultano anche estremamente timorosi e diffidenti nei loro confronti. In seguito alcune indigene mostrano a Monroe i resti dei cadaveri dei reporter, accatastati in una sorta di monumento, ma solo dopo qualche tempo, quando il professore regala loro uno walkman col quale fa risuonare nell’accampamento un po’ di musica, gli Shamatari iniziano a fidarsi e li invitano ad una cena (cannibale) e, pur non consentendo loro di seppellire i corpi dei membri della troupe, accettano di riconsegnare il materiale girato dai quattro. Giunto a New York Monroe inizia a visionare i filmati ed assiste alle malefatte di Yates ed i suoi che, giunti al villaggio Tibuna, trovando gli indigeni di scarso interesse per il documentario perché molto pacifici, organizzano un finto attacco da parte di una tribù rivale incendiando le
capanne ed uccidendo gli abitanti inermi.

Abbandonati i terrorizzati Tibuna sopravvissuti i quattro si imbattono in una giovanissima ragazza di etnia Shamatari che violentano, uccidono ed impalano nei pressi di un fiume, fingendo di filmare il risultato di un rito dei ‘selvaggi abitanti del luogo’. I membri della tribù della ragazza però si dimostrano guerrieri ben più abili dei Tibuna e mettono in difficoltà gli americani che, rimasti con poche munizioni e svantaggiati dalla scarsa conoscenza dei luoghi, vengono scovati uno per uno e fatti letteralmente a pezzi. Yates continua a filmare tutto, incluse le morti dei suoi colleghi catturati, Jack e Shanda, e continua ad urlare a Mark di non smettere di registrare anche quando egli stesso viene catturato e fatto a pezzi dai cannibali.

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Il film è diviso in due parti distinte, la prima, ‘The last road to hell’ mostra le ricerche del professor Monroe, ed è stata girata in 35 mm, la seconda, ‘The green inferno’ (titolo ripreso anni dopo da Eli Roth per il suo seguito-omaggio a ‘Cannibal Holocaust’) ha come protagonisti i quattro reporter ed è girato in 16 mm con macchina a mano, con la pellicola graffiata in modo artefatto per esasperare l’impressione del ‘found footage’.

Gli esterni sono girati a New York e nel piccolo villaggio di Leticia, in Colombia, località sperduta nei pressi dei confini con Brasile e Perù, crocevia del narcotraffico e del commercio di armi. La scelta della location amazzonica fu complessa tanto che il regista ed il produttore Palaggi, dopo aver visitato luoghi ben più conosciuti e già utilizzati in altre produzioni (ad esempio da Gillo Pontecorvo in ‘Queimada’) nei dintorni di Cartagena, non avendo trovato quella giungla incontaminata che andavano cercando, stavano per abbandonare il paese con l’idea di girare gli esterni in Asia, nei luoghi dove Deodato aveva già lavorato per ‘Ultimo mondo cannibale’. Fu solo all’ultimo momento che un documentarista incontrato per caso a Bogotà suggerì al regista italiano di andare a visitare quella zona della Colombia, dove secondo lui avrebbe trovato quello che cercava, e così, in effetti, fu. Come da abitudine nel cinema italiano ‘di genere’ la troupe era molto risicata, i protagonisti vennero reclutati a New York ed erano due attori italiani e due americani, appena usciti dall’Actor’s Studio e quindi poco conosciuti, che avrebbero dovuto restare nell’anonimato per un anno, questo perché la produzione come mossa pubblicitaria voleva far passare per vere le immagini ‘ritrovate’ e quindi i reporter effettivamente defunti, come accadde anni dopo per ‘The Blair Witch Project’. 

Il resto degli interpreti vennero reperiti sul luogo, come gran parte dei tecnici, gli indigeni che compaiono nel film erano realmente parte di una tribù amazzonica brasiliana e la loro interpretazione è impressionante se si considerano le difficoltà di comunicazione con la troupe straniera ma ancora di più il fatto che, in effetti, non sapevano neppure cosa fosse il cinema. ‘Cannibal Holocaust’ non è, come si è portati a pensare, il capostipite del genere ‘cannibal’ in Italia, primato che va invece ad Umberto Lenzi per ‘Il paese del sesso selvaggio’ del 1972, film comunque assai meno violento, lo stesso Deodato girò prima di questo un altro ‘cannibal movie’, ‘Ultimo mondo cannibale’ e non avrebbe voluto ripetere l’esperienza viste le difficoltà incontrate sul set e le molte critiche legate alla violenza dell’opera, alla fine fu però convinto anche grazie al fatto che la produzione gli lasciò ampia libertà di azione. In base ad una sceneggiatura di Gianfranco Clerici molto essenziale, che lasciava grande spazio all’improvvisazione, il regista decise di mescolare l’intrattenimento ad un accenno di critica sociale.

In particolare all’epoca Ruggero Deodato aveva il dente avvelenato con i mass media e la cosa appare molto evidente in questo film, ma si evince anche una certa insofferenza verso pratiche neocolonialiste ed intromissioni violente nella vita e nell’habitat degli indigeni. Merita una citazione il lavoro di Riz Ortolani, già collaboratore di Gualtiero Jacopetti, che come aveva fatto in ‘Mondo cane’ contrasta (e quindi amplifica) la violenza mostrata sullo schermo usando un registro musicale estremamente morbido, a tratti perfino dolce.

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Ho volutamente lasciato per ultima la spinosa questione della violenza di ‘Cannibal Holocaust’, in anticipo sui famigerati film ‘Cat III’ (la categoria assegnata a partire dal 1988 ai film più estremi dall’Hong Kong motion picture rating system), e declinabile in due parti distinte, entrambe foriere di diversi problemi alla produzione ed al regista che, va ricordato, fu condannato in Italia a quattro mesi di carcere (con la condizionale) per violenza sugli animali.

Due parti distinte, dicevo, in primis ci sono le violenze simulate, che includono la mirabile scena dell’impalamento dell’indigena, la gamba della guida tagliata con il machete, i corpi dei reporter martoriati e mangiati dagli indigeni… il tutto girato con un budget limitatissimo ma con grande realismo, tanto che qualcuno finì per credere che il film fosse veramente uno snuff movie, anche a causa di qualche dichiarazione di un fonico colombiano, che aveva partecipato alle riprese a Leticia, in cerca di pubblicità. Per quanto la cosa sia sospesa tra mito e realtà  Ruggero Deodato ancora oggi racconta che fu costretto a chiamare in fretta e furia Luca Barbareschi (che nel film interpreta Mark) per dimostrare ai giudici milanesi che i suoi attori lui non li aveva realmente uccisi come si sosteneva in tribunale.

Poi c’è la parte dolente, quella relativa alla violenza sugli animali non simulata, perché va detto che il maialino, la scimmia, la tartaruga, il serpente ed il topo muschiato che vengono uccisi nel film non sono frutto di effetti speciali. La ragione per cui all’epoca si agì in quel modo è molto semplice, sostanzialmente si poteva fare (o, comunque, si tollerava) e costava meno muoversi così piuttosto che usare un complesso effetto speciale. Gli animali furono usati come cibo dalla troupe e dagli indigeni per cui, vera o falsa che sia questa affermazione fatta dagli interessati, essi sarebbero stati uccisi comunque, anche qualora non fossero stati filmati.

Personalmente ritengo che la cosa, per quanto moralmente criticabile, non scalfisca minimamente la qualità della pellicola, mi meraviglia semmai l’accanimento che c’è stato nel corso del tempo nei confronti di Deodato, visto che questo non è certamente l’unico film nel quale sono accadute sgradevolezze di questo tipo, e non bisogna neppure citare oscure pellicole orientali come ‘Men behind the sun’ perchè nell’hollywoodiano ‘La carica dei seicento’ del premio Oscar Michael Curtiz furono uccisi almeno 25 cavalli, e risulta che furono ammazzati degli animali sul set, nel corso degli anni, in pellicole dirette da Tarkovsky, Godard, Bertolucci e Peckinpah, solo per citare qualche nome ‘che conta’ nel cinema mondiale, eppure non ricordo il medesimo accanimento nei loro confronti.

L’unica cosa che si può certamente affermare in merito è che, fortunatamente, questa è una pagina che si è definitivamente voltata ed oggi esistono organismi preposti al controllo dell’uso corretto degli animali sul set, anche se, invero, anche di recente non sono mancate polemiche in merito. Ne ‘Lo hobbit’ di Peter Jackson, ad esempio, alcuni animali (pecore e cavalli) morirono durante la lavorazione a causa della negligenza di chi se ne doveva prendere cura e le condizioni estreme nelle quale si girava, anche se in questo caso, si trattava comunque di incidenti.

La "Trilogia dei Cannibali" di Ruggero Deodato