PACIFICTION
PACIFICTION
GENERE: drammatico
ANNO: 2022
PAESE: Spagna
DURATA: 163 minuti
REGIA: Albert Serra
CAST: Benoît Magimel, Pahoa Mahagafanau, Marc Susini, Matahi Pambrun, Alexandre Melo
Pacifiction è un film che non lascia indifferenti. È un film che provoca, che interroga, che sfida lo spettatore. È un film che va visto e vissuto. Il film è ambientato a Tahiti, dove l'Alto Commissario della Repubblica francese, De Roller, indaga su voci che il governo sta per riprendere i test nucleari sull'isola. De Roller è un uomo enigmatico e solitario, e la sua indagine lo porta a confrontarsi con la propria identità e con il ruolo del colonialismo in Polinesia.
Tra gli abitanti di Tahiti, nella Polinesia francese, comincia a diffondersi la notizia di un’imminente ripresa degli esperimenti nucleari; ne chiedono conto all’alto commissario della Repubblica De Roller, il quale, indagando con discrezione nella sua cerchia di personaggi equivoci e misteriosi, comincia a riconsiderare la propria posizione all’interno di un sistema sempre più indecifrabile.
Il regista catalano Albert Serra è, al pari del collega madrileno Carlos Vermut (del quale presto parleremo), l’“irregolare” per eccellenza del nuovo cinema spagnolo; dopo aver privilegiato per anni le riletture storiche in chiave molto personale (dal Don Chisciotte alla Natività, passando per la Francia dell’Ancien Régime), torna ora con questo Pacifiction (conosciuto anche col titolo meno geniale Tourment Sur Les Iles), un’opera apparentemente più contemporanea con la quale si è presentato per la prima volta a Cannes (pare che un certo David Fincher ne sia rimasto entusiasta); dicevamo “apparentemente”, poiché la pellicola è sì ambientata ai giorni nostri ma in una dimensione che sembra sospesa nello spazio e nel tempo, una sorta di “altrove” dalle chiare ascendenze cinefile, pittoriche e letterarie.
La vera protagonista è infatti l’isola stessa, della quale Serra cattura le esplosioni di rosa, arancio e blu acceso dentro inquadrature di una bellezza assoluta, elevandola a luogo trascendente (la fotografia di Artur Tort, che omaggia l’uso del colore post-impressionista col quale il maestro Paul Gauguin ritrasse il suo luogo del cuore, toglie davvero il fiato); è qui che si muove l’alto commissario della Repubblica De Roller – uno straordinario Benoit Magimel, che fagocita letteralmente il film (è praticamente sempre in scena per le due ore e tre quarti della sua durata) -, personaggio che racchiude in sé l’aplomb, l’ambiguità e la disillusione di tutta una genia di figure riconducibili al filone della spy-story dai risvolti vagamente catastrofici (il film potrebbe connotarsi come un ibrido “rarefatto” tra 007 – “stile James Bond”, commenta a un certo punto il nostro protagonista riferendosi ad un sottomarino – e Apocalypse Now, nel suo inseguire di pari passo un percorso introspettivo e il sentore di obiettivi militari segreti che potrebbero tornare “caldi” in ogni momento, come attualità impone); De Roller – il quale, a dispetto di un fisico un pò bolso, è sempre impeccabile col suo abito di lino e gli occhiali “fumè” sia nelle occasioni mondane che nelle situazioni più improbabili (perchè in fondo è una “divisa” connaturata al suo ruolo) -, ascolta, blandisce, minaccia velatamente, rassicura (come l’Yvan De Wiel di Azor, pellicola che ha qualche punto di contatto con questa), ma in fondo è consapevole della vacuità del contesto, e sembra perciò sempre più intenzionato a smarcarsene; l’inchiesta sulle voci incontrollate che preoccupano la popolazione locale diviene così piano piano una sorta di autoanalisi: il dignitario, mentre presenta una scrittrice (“di quelle che riescono a creare una sorta di lingua straniera che provoca confusione, piuttosto che offrire semplici chiarimenti”) venuta a cercare ispirazione in quel luogo incantato, confessa di “mettere le cose in prospettiva” annotandole su un quaderno/“scatola nera” – a rimarcare che se tutto, in quest’era postmoderna, è narrazione, bisogna andare allora alla radice “romanzesca” della realtà: qui infatti le vicende potrebbero uscire indifferentemente dalla penna di Graham Greene, di Juan Carlos Onetti o appunto di Joseph Conrad e Ian Fleming -, e finisce poi per trasformare ogni conversazione in un monologo, estraniandosi, pur stazionando spesso sotto un sole abbacinante, in una “penombra” esistenziale e portando così il film nei territori del flusso di coscienza.
C’è un paradiso in terra, con tutto il suo fascino e la sua complessità (racchiusi nel bellissimo personaggio dell’androgina e sensuale Shannah, l’unico essere umano con il quale De Roller sembra non recitare una parte ma provare una reale connessione empatica, forse proprio perchè anch’esso così sfaccettato a livello di identità) e del quale godere finchè si potrà, perchè il suo contraltare metaforico è il “nightclub” della geopolitica, fatto di persone al buio che non si guardano nemmeno più in faccia, completamente fuori dalla realtà, le quali, nel loro infantilismo, credono di avere il controllo totale ma invece non controllano niente, pedine di un gioco che è deciso altrove; così la pace sul Pacifico, come ogni altra cosa, è una fiction, un’illusione, perchè l’Occidente (neo)coloniale ha sempre bisogno di individuare un nemico per riaffermare il proprio dominio (mentre gli autoctoni canalizzano l’aggressività attraverso rappresentazioni teatrali alle quali non a caso De Roller si interessa comprendendone la valenza catartica), veicolando messaggi intimidatori soprattutto attraverso la psicologia di massa (il modo più sicuro per essere rispettati e temuti?
Mostrare cosa si è capaci di fare al proprio popolo… Così teorizza il fosco Ammiraglio – senza nome e connotato solo dalla sua carica, a sottolinearne lo status di marionetta intercambiabile – nelle sue notti alcoliche: ed è un delirio lucidissimo, perchè fotografa perfettamente il pensiero delle nostre élites) salvo poi pararsi la faccia dietro al solito armamentario retorico contraddistinto da un cinismo abominevole (“i genocidi hanno creato grandi civiltà”; “la fissione nucleare avrà magari causato gravi danni – tumori, malformazioni ecc. – che si protraggono per generazioni, tuttavia ci ha permesso di avere le risorse per curarli”: insomma, dal male nasce sempre il bene, se il male lo facciamo noi che stiamo dalla parte giusta…); Tahiti diviene così un’altra Fortezza Bastiani, con la minaccia stavolta incombente non dal deserto ma celata in mezzo alle onde – dove vanno a convergere l’adrenalina del surf e quella dei machiavellismi della ragion di stato -, in un macabro revival di venti anni prima (i famigerati test atomici sull’atollo di Mururoa) o forse stavolta persino peggio; a meno di riuscire a lasciarsi tutto alle spalle e cominciare un altro racconto, un altro film, un’altra vita.
Serra astrae il “genere” per poi ricomporlo in una stilizzazione che è pura magnificenza visiva e nutrimento emotivo ed intellettuale, riuscendo a catturare con vivida acutezza la weltanshauung del presente non senza una cupa ironia; Pacifiction risulta così un’opera imperdibile per chi cerca un cinema vibrante, senza compromessi e da godere al meglio nell’esperienza della sala (avrà mai una distribuzione dalle nostre parti?): sì, concordiamo in pieno con mr. Fincher…