BABYLON
BABYLON
GENERE: drammatico
ANNO: 2022
PAESE: USA
DURATA: 107 minuti
REGIA: Damien Chazelle
CAST: Brad Pitt, Margot Robbie, Diego Calva, Jean Smart, Jovan Adepo, Tobey Maguire, Eric Roberts
Babylon. Siamo nel 1926: nella villa di un dirigente della Kinoscope, Don Wallach, si svolge una festa all’insegna degli eccessi; Manuel Torres, facchino messicano incaricato di trasportare sul luogo un elefante, e l’aspirante starlette Nellie LaRoy riescono ad imbucarsi dopo aver fatto reciproca conoscenza; uno dei partecipanti è il divo Jack Conrad, mentre tra gli orchestrali che allietano il baccanale spicca il talento del trombettista di colore Sidney Palmer; l’ambigua Fay Zhu, intanto, si esibisce in una performance lasciva…
Le vicende di questi personaggi saranno destinate ad incrociarsi ad Hollywood negli anni successivi, quando finisce l’era del cinema muto e si apre quella del sonoro… Damien Chazelle sceglie dunque il punto di svolta decisivo della storia della settima arte e ce lo racconta a modo suo, ma tenta anche di rispondere alla domanda su cosa rappresenti, nella sua sostanza più profonda, il cinema per chi lo fa e per chi lo fruisce da spettatore; è la “Hollywood Babilonia” dei party sfrenati nelle magioni in stile moresco a base di fiumi di alcool, droga, sesso – eternata in un libro controverso ma fondamentale del cineasta d’avanguardia Kenneth Anger, dal quale il Nostro trae diversi spunti, come ad esempio la vicenda di Roscoe “Fatty” Arbuckle, attore, produttore e regista che nel 1921 si rese probabilmente colpevole di aver provocato la morte di una giovane attrice al culmine di una pratica estrema – a fungere da innesco narrativo: Chazelle fa letteralmente volare la macchina da presa in questo clima elettrico ed orgiastico che disorienta ma anche innegabilmente ammalia perchè al suo interno sembra davvero tutto possibile e si sperimentano i poli estremi della vitalità prorompente e dell’abisso improvviso e insensato.
Per quanto questa macrosequenza rappresenti per certi versi una sorta di MacGuffin (e molti critici ci sono cascati in pieno, riducendo un film complesso e stratificato come questo ad una mera operazione creata per “épater les bourgeois”), oltre a presentare i personaggi principali fornisce però in realtà, ad un’analisi più attenta, una chiave di lettura attraverso la quale interpretare ciò che verrà nelle due ore e mezza successive (le quali, va detto, scorrono via che è una bellezza), che risulteranno per larghi tratti molto divertenti in superficie ma anche attraversate da una vena carsica di amarezza quando non di vera disperazione.
La magia che vediamo sullo schermo è spesso infatti il prodotto di ossessioni brucianti: la fama vista come occasione di riscatto, al punto da inventarsi una “maschera” pubblica rinnegando la propria identità (parabola con la quale fanno i conti più o meno tutti i protagonisti), ma anche la ricerca della luce perfetta per un’inquadratura, o dell’assoluto silenzio, con un ciak ripetuto all’infinito (attraverso due segmenti clamorosi, l’uno per la gestione magistrale dei campi lunghi e delle scene di massa, degna dei kolossal d’antan, l’altro per il perfetto uso dei tempi e del montaggio, Chazelle illustra la curiosa proporzione inversa nella quale Caos:Muto=Quiete:Sonoro…); sino a giungere al paradosso più crudele di tutti, l’immortalità su celluloide e l’oblio in vita, perchè l’ingranaggio fagocita tutti con vorace spietatezza, dalle stelle più luminose sino all’ultima delle maestranze, – complice un apparato mediatico che già allora contribuiva a creare e distruggere reputazioni coi rotocalchi di gossip (si veda il personaggio della giornalista Elinor St. John interpretata da Jean Smart) come ora fa via social – consegnandoli al regno di angeli e fantasmi (difatti si muore tanto in questo film, sia artisticamente che per davvero, vittime di incidenti sul set dovuti ad un bestiale sfruttamento, per scelta o a causa dei propri vizi); ma Chazelle, mettendosi in modo convinto dalla parte degli outsider e degli sconfitti, per quanto umanamente complessi se non debosciati possano risultare, si accorda ad una sensibilità che possiamo rintracciare in opere come Il Giorno Della Locusta di John Schlesinger (adattamento dello straordinario romanzo di Nathaniel West) o S.O.B. Di Blake Edwards, ma anche in autori contemporanei (penso agli ultimi Tarantino, Fincher e Peele, con tre film a loro modo tematicamente piuttosto affini a questo come C’Era Una Volta A Hollywood – del quale, oltre a condividere due protagonisti, Pitt e la Robbie, cita anche la sequenza in cui quest’ultima va a “rivedersi” al cinema -, Mank e Nope), insomma ci parla di ieri per parlarci di oggi, stigmatizzando il ripresentarsi di una deriva moralizzatrice ipocrita e creativamente castrante (meglio una trasgressione genuina e alla luce del sole che il perbenismo di un’alta società da “vizi privati e pubbliche virtù”, sulla quale difatti il regista vomita letteralmente il suo disprezzo per l’interposta persona di Nellie), e rigettando la lettura totalmente vittimistica che ne consegue (il mondo non è fatto solo di orchi che traviano i giovani virgulti e di minoranze oppresse, molte persone in realtà scelgono consapevolmente di sottostare a dei compromessi per arrivare al successo, salvo poi magari pagarne le conseguenze sulla propria pelle), posizione non proprio comoda e anzi piuttosto controcorrente, la quale ha sicuramente nuociuto all’accoglienza generale riservata al film (si sono lette recensioni oggettivamente deliranti).
Babylon è una pellicola sicuramente divisiva, a cominciare da un finale lisergico e magari un po’ ingenuo, ma di sicuro impatto, che, situandosi a metà tra 2001 Odissea Nello Spazio e Nuovo Cinema Paradiso, vuole rappresentare, in una dinamica di morte e rinascita, le illusioni perdute ma anche la meraviglia dell’uomo comune davanti ad un’esperienza nella sala resa sempre più straniante dai progressi della tecnologia (quell’emozione allo stesso tempo finta e vera, perchè creata “a tavolino” ma capace di “arrivare” a milioni di persone, e quindi di significare per loro qualcosa, come ricorda in un bel dialogo Jack Conrad – certo non bisogna nascondersi le implicazioni potenzialmente pericolose di questo potere di suggestione, se usato per subdoli fini propagandistici, specie nei tempi attuali in cui la possibilità di fruizione si è notevolmente diversificata ed ampliata -); impossibile però non riconoscere a Chazelle una cifra autoriale spiccata e già ben riconoscibile dopo solo un pugno di anni di carriera (ricordiamo che anagraficamente ne ha soltanto trentotto!): il regista di Providence concepisce infatti il suo film come un vero e proprio cripto-musical dall’andamento jazzato (la colonna sonora di Justin Hurwitz, utilizzata in maniera sia diegetica che extradiegetica, è superba), “dialogando” in questo costantemente con due sue precedenti opere come Whiplash e LaLaLand (quell’attrazione “fisica” per il ritmo viene restituita da zoom ripetuti sugli strumenti e da un montaggio sincopato) e più in generale con un antesignano come Singing In The Rain di Stanley Donen, del quale potrebbe rappresentare una versione “dark side of the moon”, dimostrando una padronanza del mezzo non comune unita alla grande capacità di direzione degli attori (splendidi sono l’effervescente Margot Robbie/Nellie LaRoy, alla sua prova forse più “totale”, e Brad Pitt/Jack Conrad, carismatico e sensibile dietro l’apparente faccia da schiaffi; una bella sorpresa è altresì Diego Calva nei panni di Manuel “Manny” Torres, senza dimenticare Li Jun Li che interpreta la misteriosa performer Fay Zhu e Jovan Adepo nei panni del trombettista Sidney Palmer, più tutta una serie di comprimari più o meno conosciuti); insomma non si può che gioire di fronte ad un cinema così debordante e sincero, che non ha paura di sfiorare il ridicolo per parlarci invece del tragico, e al quale si perdonano senza indugio eventuali ridondanze tanto risulta appagante la visione.