JUSTINE
GENERE: erotico estremo, horror disturbante, cinema indipendente
ANNO: 2022
PAESE: Messico
DURATA: –
REGIA: Alex Hernández
CAST: Dan Zapata, Enrique Diaz Duran, Jacqueline Blanca Bribiesca, Juan Manuel Martinez, Marisela Plaza
Diretto dal regista messicano Alex Hernández e presentato da Domiziano Cristopharo, Justine è un film erotico estremo e disturbante che si ispira al romanzo “Justine o le disavventure della virtù” (1791) dello scrittore francese Donatien-Alphonse-François de Sade. Può la virtù restare integra davanti alla perversione di un piacere estremizzato? Può la sofferenza essere essa stessa piacere (sessuale)? Fin dove si può spingere la corruzione di una mente pura nel momento in cui inizia a marcire?
Fin dai primi frame siamo catapultati nel dolore: presenziamo infatti all’intervento medico su una vagina, lacerata dal parto. Una voce fuori campo ci guida in una serie di considerazioni sulla sofferenza e sull’intimo legame che la lega all’essere umano. Gli stessi gesti d’amore più grandi che possano esistere, il concepimento e la nascita, sono frutto della violenza (un pene che viola l’organo sessuale femminile) e del tormento (il parto). L’uomo per tutta la sua esistenza resterà vincolato a tutto questo.
Dopo questo inizio “shock” assistiamo, come in un’opera teatrale, al dipanarsi della storia attraverso 4 disturbanti ed angoscianti atti. Justine, la protagonista, tumefatta in un letto, racconta, ad una donna seduta al suo capezzale, la sua storia. Lei, giovane ragazza pura, idealizzata quasi come una santa (con “pura” si intende vergine e convinta di questo valore), diventa la donna delle pulizie del Dottor Rodin, uno psicopatico che la trascinerà in un vortice di violenze ed umiliazioni nel tentativo di farla crollare dal suo pulpito di santità.
Il sadismo è a tutti gli effetti il protagonista della prima parte, in un contesto quasi teatrale con teli di nylon sulle pareti che richiamano le quinte di un palco e una scenografia minimalista, il Dr. Rodin oltraggia oltre ogni aspettativa la povera Justine, ma tutto questo non è abbastanza per soddisfare il suo appagamento sessuale. Passiamo poi ad una seconda parte dal sapore caravaggesco dove, attraverso un evocativo gioco di luci ed ombre e raffinate inquadrature strette, ci viene mostrata la sanguinosa flagellazione della ragazza. Il terzo atto parte da una digressione sulla religione per arrivare all’identificazione del folle medico con Dio stesso, lui è crudele perchè Dio è crudele e questo aspetto li rende entrambi onnipotenti e divini. Da qui in poi è un’escalation delle più deviate parafilie con la sola finalità di raggiungere il piacere che è la massima aspirazione, un vero tormento dell’anima, e qualsiasi mezzo (qualsiasi!!!) è lecito per ottenerlo poichè è un’emozione nata prima di qualsiasi altra cosa e massima espressione di libertà, scevro di ogni forma di costrizione o vincolo morale.
Alex Hernàndez riprende dal Marchese De Sade molti aspetti della sua filosofia e della sua poetica: il connubio indissolubile tra piacere e dolore, il rifiuto della morale, il disprezzo per le regole fasulle e ipocrite imposte dalla società e la descrizione delle devianze sessuali.
“Justine” è, per quanto cruda ed eccessiva, un’opera raffinata, forte di una fotografia eccellente (diretta da Dante Belmont), sorretta da effetti speciali pratici magistralmente realizzati e accompagnata da una colonna sonora composta interamente da musica classica, il cui utilizzo in diversi frangenti mi ha ricordato il Ludovico Van di Arancia Meccanica. Il cast ovvero Dan Zapata, nel ruolo di Justine (la vittima) ed Enrique Diaz Duran, Rodin (il carnefice), lascia senza fiato per la profondità delle interpretazioni. È sicuramente un film non facile, una delle opere estreme e disturbanti meglio riuscite degli ultimi anni; ammetto di averlo visto in due volte, essendo particolarmente sensibile alle violenze perpetrate sulle donne ho provato un forte malessere nella sequenza della fustigazione. Un film assolutamente da vedere per chi ama l’arte applicata al cinema e non vuole fermarsi ad un superficiale voyeurismo.