DON’T LOOK UP

Don't look up i cinenauti recensioni film serie tv cinema

DON'T LOOK UP

DON'T LOOK UP

Don't look up i cinenauti recensioni film serie tv cinema

GENERE:         sci-fi, satira, drammatico

ANNO:             2021

PAESE:            USA

DURATA:         145 minuti

REGIA:            Adam McKay

CAST:              Jennifer Lawrence, Leonardo DiCaprio, Meryl Streep, Rob Morgan, Jonah Hill, Cate Blanchett, Timothée Chalamet, Ariana Grande, Kid Cudi, Ron Perlman

Don't look up. Kate Dibiasky, dottoranda in astronomia all'università del Michigan State, scopre una cometa non identificata e la segnala al suo professore, Randall Mindy, il quale calcolandone le dimensioni e la traiettoria conclude che colpirà la terra entro sei mesi causando l'estinzione di ogni forma di vita.

I due si mettono in contatto con gli organismi preposti per segnalare la cosa e ottengono udienza alla Casa Bianca dove però la Presidentessa Orlean e il suo staff, impegnati in una delicata tornata elettorale, sembrano dare poco peso alla minaccia e ordinano di secretare la notizia in attesa di approfondimenti; Randall e Kate, ritenendo al contrario che i cittadini debbano essere immediatamente informati, riescono a farsi invitare al più popolare talk show nazionale: nonostante il professore si faccia apprezzare per il suo modo pacato di spiegare le cose (mentre al contrario la ragazza dà in escandescenze per il tono troppo “leggero” col quale viene affrontato l’argomento e diventa così bersaglio del web), i due vengono fatti passare sostanzialmente come simpatici “svitati” catastrofisti da non prendere minimamente sul serio; ma questo è solo l’inizio di una sorta di percorso kafkiano che porterà a conseguenze devastanti…

Gli Yankee e la fine del mondo, dunque, binomio vecchio quanto Hollywood che Adam McKay qui rielabora col suo solito gusto “pop” e dissacratorio – frullando il blockbuster apocalittico alla Armageddon con la fanta-parodia di Mars Attacks! e un pizzico del Lars Von Trier di Melancholia, ma tenendo sempre ben presente, e non potrebbe essere altrimenti, un archetipo come Il Dottor Stranamore – per fare una sorta di “punto della situazione”: ecco allora la “cometa”, che non necessariamente allude alla pandemia (la sceneggiatura è stata scritta nel 2019), benchè alcune dinamiche siano certamente sovrapponibili, ma più probabilmente a temi “ecologisti” (scontato tributo al milieu “liberal” e “politically correct”, visti gli attori coinvolti – in particolare un “attivista” del calibro di Leonardo Di Caprio – e la distribuzione di Netflix).

Ed ecco uno Studio Ovale occupato da grotteschi inquilini che rappresentano – per espressa ammissione del regista – un mix caricaturale dei tratti più deteriori della politica a stelle e strisce degli ultimi trent’anni (un’“idra” che si dipana dal binomio Donald/Ivanka Trump a generi invertiti sino a comprendere riferimenti che vanno dai Bush ai Clinton – e McKay col personaggio della Presidentessa Orlean (una Meryl Streep che gigioneggia da par suo) ne approfitta anche per tirare una bella stoccata a tutta quella scuola di pensiero che invoca il ruolo salvifico delle donne ai posti di comando… – ); l’intento è quello di mostrare chiaramente come Dem e Gop siano le facce di una stessa medaglia, incaricati di tenere in vita un simulacro di quella democrazia in realtà ormai ridotta ad un guscio vuoto e asservita agli interessi privati (che vengono propagandati come generali da un colossale apparato mediatico) di poche multinazionali.

Nel mirino finiscono in particolare i “guru” della Silicon Valley (incarnati dal personaggio di Peter Isherwell – splendidamente “scolpito” da Mark Rylance – che ha in sé la ieraticità di Steve Jobs, l’ossessione per dati e algoritmi di Mark Zuckerberg e le utopie “spaziali” di Elon Musk) i quali hanno ormai espanso la loro sfera d’influenza sino ai più alti livelli governativi, potendo così orientare decisioni strategiche di estrema delicatezza in un senso a loro gradito (qui ad esempio viene sollevato un rilevante tema geopolitico – il controllo e lo sfruttamento dei metalli rari indispensabili ai prodotti hi-tech – , a dimostrazione del fatto che il film ha chiavi di lettura più complesse di quanto appaia), anche se queste “partite” vengono magari giocate sulla pelle dell’intera collettività (e il piano B col quale tentano di mettersi in salvo non è poi così lontano da quanto certe élites “transumaniste” stanno effettivamente progettando nella realtà…): McKay ne sottolinea così, a dispetto di come si autorappresentano – e quindi vengono rappresentati – (guai a chiamarli uomini d’affari: sono geni visionari, filantropi, ecc.), l’avidità, i tratti di sociopatia/delirio di onnipotenza, e in definitiva le malcelate pulsioni totalitarie.

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Stabilito questo orizzonte, il film si arricchisce di molteplici riflessioni che fungono da corollario: come fa dire a Jennifer Lawrence al culmine di un dialogo con Timothee Chalamet, gli uomini di potere “non sono abbastanza intelligenti da essere così malvagi come li credete” (impagabile il generale che si fa pagare i salatini…); ne consegue la necessità di coltivare un autentico spirito critico per evitare di farsi “risucchiare” nelle deleterie “polarizzazioni”, amplificate dalla “giungla” social, unicamente funzionali a quel “divide et impera” che permette a chi governa di procedere col “pilota automatico”; ai “piani alti”, di fronte alle potenziali emergenze, tendenzialmente si reagisce prendendo tempo, salvo poi cavalcarle quando viene fuori qualche possibile tornaconto (da qui discende anche tutta l’ipocrisia di certe “campagne” alle quali fanno da megafono gli “influencer” dello star-system), e questo accade a maggior ragione se il grido d’allarme arriva da studiosi di provincia magari frustrati e depressi perchè tenuti ai margini di un sistema che riconosce credibilità solo alle baronie accademiche della Ivy League e ai grandi capitalisti “finanziatori Platinum” (si veda appunto il contrasto tra gli scrupolosi e appassionati ma Xanax-dipendenti Mindy e Dibiasky e la pletora di “esperti” pluridecorati che “legano l’asino” dove vuole la Bash Corporation…).

L’unica possibilità per un outsider è allora quella di conformarsi e accettare di essere cooptato dentro un “circo” nel quale gli verranno dati sì voce e privilegi ma a patto di trasformarsi in un burattino “usa e getta” (Mindy acquista grande visibilità e diventa amante della anchorwoman più famosa d’America ma perde progressivamente di vista il suo ruolo di scienziato nonchè di padre di famiglia, e a un certo punto arriva addirittura a pensare, in mancanza di meglio, di poter controllare “dall’interno” quegli stessi decisori che lo hanno accolto nella “stanza dei bottoni” esclusivamente per strumentalizzarlo); insomma, difficile resistere alla seduzione del successo, però anche un cocciuto idealismo non sempre purtroppo è propedeutico all’affermazione della verità, anzi…

Nel giungere ad un approdo insieme disastroso e sarcastico (da godere sino alla fine dei titoli di coda…) il regista di Filadelfia pone come auspicio – inscenando una sorta di ultima cena degli uomini di “buona volontà” sconfitti (quei “campioni” del quotidiano spesso celebrati anche nel cinema del grande Clint Eastwood) – il recupero di un concetto di vita comunitario e solidale, rispettoso dell’ambiente e innervato da una dimensione spirituale, da contrapporre alla vuota retorica e agli eroi di cartapesta (o di celluloide…) con i quali la massa viene blandita mentre la si manda allegramente al macello.

McKay fa “dettare” al montaggio dinamico di Hank Corwin i tempi del suo stile quasi paradocumentaristico – fatto di momenti convulsi e improvvise “decelerazioni” – , pur sfrondato qui da alcuni vezzi che caratterizzavano le sue opere precedenti (ad esempio gli sfondamenti della “quarta parete” e i camei di personaggi famosi nel ruolo di narratori del notevole La Grande Scommessa), gioca con effetti speciali da B-movie e lascia briglia sciolta ad un cast “all stars” che offre una prova corale divertente e divertita (sul mio personalissimo cartellino il punteggio più alto va ad un esilarante Jonah Hill nei panni del figlio bamboccione e cocainomane della Presidentessa).

Don’t Look Up risulta così una pellicola che riesce a smarcarsi da facili etichette e a distinguersi per acutezza di analisi, pregna com’è di un’ironia cólta che prende a bersaglio molti aspetti della società americana ma è in gran parte traslabile anche al resto del mondo occidentale, confermando Adam McKay come un regista/sceneggiatore di grande livello e dalla visione molto personale.

Anton Chigurh

Mi chiamo Mattia, alias Anton Chigurh, classe 1975, ho fatto studi classici e sono orgogliosamente spezzino; cosa chiedo ad un film o ad una serie tv? Di farmi riflettere, di inquietarmi, di lasciarmi a bocca aperta, di divertirmi... Per sapere dove trovo tutto questo, leggete le mie recensioni su I Cinenauti!