PARASITE
GENERE: drammatico
ANNO: 2019
PAESE: Corea del Sud
DURATA: 132 minuti
REGIA: Bong Joon-ho
CAST: Song Kang-ho, Lee Sun-kyun, Yeo-jeong Jo, Choi Woo-Sik, Park So-dam
Parasite. Due famiglie (i Ki-taek e i Park), due abitazioni (un angusto seminterrato e una villa di avanzato design architettonico), due quartieri (quello popolare e quello “vip”, così “distanti” tra loro da non sembrare nemmeno nella stessa città), due odori (la “puzza” dei poveri, il profumo dei ricchi), due modi di comunicare (i messaggi WhatsApp e il codice Morse), due Coree... E poi due schegge impazzite che scombussolano i piani (perchè, legge di Murphy docet: “Che tipo di piano non fallisce mai? Nessun piano”).
Film dicotomico per eccellenza questo Parasite, commedia/noir al vetriolo che dal titolo parrebbe invece uno di quei sci-fi anni cinquanta alla Invasione Degli Ultracorpi; eppure, paradossalmente, non ci siamo nemmeno troppo lontani, almeno a livello simbolico: anche qui, a ben guardare, si parla di “sostituzione” sotto mentite spoglie (i sottoproletari si intrufolano in casa dei benestanti sbarazzandosi della servitù con stratagemmi machiavellici) e di alieni (nel senso figurato di chi è diverso rispetto a un ambiente o a un contesto sociale).
La vecchia lotta di classe sembra però già “sterilizzata” in partenza: chi sta in basso non è più portato a solidarizzare e ad unirsi allo scopo di mettere in discussione l’intero sistema ma vede come unica prospettiva possibile quella di sgomitare per accaparrarsi una piccola fetta di torta (anche, in mancanza di concrete alternative, attraverso mezzi poco leciti), subendo per di più un certo fascino perverso esercitato dal lusso; così il conflitto si manifesta soltanto in senso orizzontale, a tutto vantaggio del vertice che può tranquillamente continuare a prosperare nella sua bolla dorata fatta di vacuità, finta bonarietà e paternalismo; solo un caos cieco e violento, un “rimosso” riemerso con prepotenza, si incaricherà di spezzare questo circolo vizioso, ma nessuno ne uscirà indenne…
Chi è dunque, in questo contesto, il vero parassita? I Ki-taek, persone dignitose e tutto sommato prive di grettezza d’animo, vengono travolti da una dinamica vittima-carnefice (che porta inevitabilmente allo scoperto gli istinti peggiori) dalle conseguenze tragiche, innescata dalla mera necessità di sopravvivenza e da circostanze fortuite ed imprevedibili; ma c’è sempre, a un certo punto, una goccia (in questo caso un’alluvione…) che fa traboccare il vaso, e non rimane allora che un estremo gesto di orgoglio, che ricorda quello di Alberto Sordi/Silvio Magnozzi nell’ultima scena di Una Vita Difficile di Dino Risi.
Qui però siamo nel cinema della vendetta e del sangue, così lo schiaffo si trasforma in qualcosa di molto più cruento, che prelude, com’è naturale che sia, ad un finale per nulla consolatorio o accomodante, perfetto nel suggellare la struttura circolare dell’opera: si torna, fatalmente, a quel “carcere” dal quale forse non si riuscirà mai ad evadere, senza nessuna prospettiva di maggiore equità o di riscatto tramite la cultura, il lavoro, la famiglia: l’elevazione sociale, la “liberazione”, possono passare solo attraverso il denaro, “ferro da stiro che toglie ogni piega”; e di nuovo uno sguardo in macchina (ancora più intriso di amarezza, perchè qui la disillusione ha già investito in pieno le nuove generazioni), come quello che chiudeva il grandissimo Memories Of Murder, dice più di mille parole…
Parasite, basato su un perfetto congegno pieno di geniali trovate narrative, risulta così, sotto una superficie brillante e grottesca (si ride anche parecchio, nonostante tutto…), una lucidissima e spietata disamina dell’attuale modello socio-economico, di fatto ormai percepito (perchè fatto percepire…) come cristallizzato ed immutabile (tema già trattato dal cineasta in particolare nel distopico Snowpiercer, ma qui ancora più efficacemente).
Il cinema coreano è forse il più “occidentale” tra gli orientali (ma qui da noi di film che possano vantare questa profondità e questa libertà espressiva se ne fanno ben pochi) e quest’opera ne rappresenta la plastica dimostrazione: siamo, come già accennato, dalle parti della grande commedia all’italiana aggiornata al tempo degli smartphone (a un certo punto parte addirittura In Ginocchio Da Te di Gianni Morandi (!) a sottolineare ironicamente una scena clou: detta così può lasciare perplessi, ma la scelta, vedere per credere, è azzeccatissima), mescolata a qualche dose di Hitchcock e di Chabrol e shakerata con la stravaganza, l’iconoclastia e l’estetica della violenza tipiche dei maestri asiatici.
Bong Joon-ho, oltre a ritrovare quella scrittura calibrata e chirurgica che aveva caratterizzato alcune pietre miliari girate in patria come il già citato Memories Of Murder e Madre, tiene (come suo solito) una lectio magistralis di regia: la gestione degli spazi e della profondità di campo (con la camera che sfrutta al massimo le due location principali esplorando ogni scala, ogni pertugio, ogni cunicolo), i morbidi piani sequenza, i ralenti, le inquadrature sempre creative, rendono il film una gioia per gli occhi; e poi c’è il bravissimo Song Kang-ho, attore feticcio di tutti i registi che contano a Seul e dintorni, che guida un cast di spessore in un crescendo che non fa prigionieri (anzi, li fa eccome… ).
Parasite è un film eccezionale e a suo modo storico (è stata la prima pellicola coreana a ricevere la Palma d’oro a Cannes) che conferma Bong Joon-ho nell’Olimpo del cinema contemporaneo.