HOLY MOTORS
GENERE: drammatico
ANNO: 2012
PAESE: Francia, Germania
DURATA: 110 minuti
REGIA: Leos Carax
CAST: Denis Lavant, Kylie Minogue, Eva Mendes, Edith Scob, Jeanne Disson
Holy Motors. Un uomo (che riconosciamo essere il regista stesso) si alza da letto, apre una porta con una strana chiave, attraversa un corridoio buio e giunge al loggione di una sala cinematografica; stanno proiettando un film ma gli spettatori sono immobili, come addormentati...
Cambio di scenario: monsieur Oscar (Denis Lavant) esce da casa di prima mattina; ad attenderlo una limousine guidata dalla sua assistente Celine (Edith Scob), anziana e misteriosa signora che ha il compito di accompagnarlo in giro per Parigi ai vari “appuntamenti” previsti per la giornata; il suo lavoro, scopriremo, consiste nell’interpretare scampoli delle più disparate esistenze, seguendo di volta in volta un copione…
Che cos’è Holy Motors, ultima fatica in ordine di tempo dell’eccentrico regista francese Leos Carax?
Innanzitutto un sentito e potente omaggio alla settima arte. Carax, creando un corto circuito tra realtà e finzione scenica, gira una sorta di backstage svelando il mondo di sacrifici e frustrazioni nascosto dietro allo star system; la limousine, da “acquario” dentro il quale “nuotava” lo squalo della tecno-finanza Eric Packer nel Cosmopolis di De Lillo/Cronenberg, diviene qui il camerino dove l’attore si trasforma, ma anche il luogo intimo dove può esternare, tra una performance e l’altra, quanta stanchezza comporti vivere per recitare e recitare per vivere: mestiere duro, che richiede eclettismo e resistenza fisica – il camaleontico Oscar/Denis e la macchina da presa di Leos spaziano attraverso ogni tipo di personaggio e di genere – , le cui uniche motivazioni risiedono, in fondo, nell’inseguire la bellezza dell’atto e nella consapevolezza di farlo per un pubblico; ma se – si chiede conversando col “padre nobile” Michel Piccoli – a un certo punto non ci sarà più nessuno a guardare? E se – come filosofeggiano le limousine nel surreale dialogo sull’obsolescenza che chiude la pellicola – nessuno vorrà più sentire “motore/azione”?
Ecco allora che l’autore transalpino – attraverso l’one man show concesso, anche in segno di omaggio, al sodale di un’intera carriera e tornando sui propri passi (il personaggio di monsieur Merde (!), apparso nel film a episodi Tokyo; il grande magazzino La Samaritaine, location usata ne Gli Amanti Del Pont Neuf – e anche da Bertrand Bonello nel già recensito Nocturama -) – , difende i “sacri motori” alla base della creazione artistica, in primis l’elemento umano, chiedendosi implicitamente se non ci sia bisogno di tornare a una certa pratica artigianale e alla radicalità di stagioni passate per ritrovarne l’essenza più profonda; perciò cari colleghi, sembra esortare Carax, fate le cose con passione, battetevi per la vostra libertà espressiva senza inseguire le mode del momento, osate e sperimentate nuovi linguaggi, non utilizzate le grandi possibilità che offre la tecnologia (esplicitate nello straordinario segmento dedicato alla “motion capture”) per “mascherare” la mancanza di idee; e voi spettatori, svegliatevi dal torpore e supportate chi ha veramente qualcosa da dire, privilegiando la visione in sala!
Ma se il mondo è un palcoscenico e perciò tutti noi, in qualche misura, recitiamo una parte a seconda delle circostanze, possiamo affermare che il film metaforizza, in un senso più ampio, la vita frenetica e alienante di quest’“uno, nessuno e centomila” che è l’individuo contemporaneo (persino sulle tombe non compaiono più i nomi dei defunti ma le esortazioni a visitare i loro siti web…), il tutto in una prospettiva ciclica che rimanda al 2001 kubrickiano (senza trascurare qualche eco lynchiana, rinvenibile soprattutto nell’incipit): ci sono l’alba, le morti, le rinascite, il ritorno a casa da una famiglia di primati, e anche questo percorso si compie dentro uno spazio isolato dal mondo esterno in compagnia di una sorta di aiutante/confessore, stavolta però bonario e protettivo (Edith Scob/Celine – nome certamente scelto non a caso, visto che la pellicola rappresenta a tutti gli effetti un “viaggio al termine della notte”… – alla fine indossa di nuovo, nell’ennesimo inserto metatestuale, la maschera che portava in Occhi Senza Volto di Georges Franju, seminale horror del 1960 nel quale, dietro al topos del dottore pazzo, si celava un discorso importante sul concetto di identità).
Grido di dolore e insieme atto d’amore di uno dei cineasti europei maggiormente estrosi ed “irregolari” degli ultimi trent’anni, Holy Motors va catalogato tra gli oggetti filmici più inclassificabili ma anche geniali nei quali possa capitare di imbattersi: dategli una possibilità senza indugi, perchè ne sarete ripagati con gli interessi!