Robert Durst, nato a Scarsdale vicino a New York nel 1943, è l’erede, insieme al fratello Douglas, di una fiorente attività immobiliare dalla quale poi si distacca nei primi anni novanta, previa una consistente buonuscita, a causa dei dissidi con quest’ultimo; nel 1973 Durst sposa Kathleen McCormack: il matrimonio, dopo i primi tempi apparentemente felici, si deteriora strada facendo, sino a quando, nel 1982, la donna, allora studentessa universitaria di medicina, si allontana da casa improvvisamente senza fare più ritorno; i sospetti si concentrano subito sul marito ma non vengono trovati riscontri per accusarlo e il caso rimane insoluto.
L’esistenza di Durst prosegue avvolta nell’ombra per quasi una ventina d’anni sino a quando, il 24 dicembre del 2000, la giornalista Susan Berman, sua amica di vecchia data, viene trovata uccisa in casa a Los Angeles con un colpo di pistola alla testa, senza che vi sia alcun segno di effrazione o di furto; si dà il caso che proprio poche settimane prima era stato riaperto il caso della scomparsa della moglie di Durst e gli inquirenti stavano per contattare proprio la Berman, che all’epoca aveva avallato l’alibi del milionario; Durst viene così di nuovo interrogato e, pur ammettendo di essere presente in zona in quel periodo, si dichiara totalmente estraneo all’accaduto: anche stavolta le indagini nei suoi confronti si rivelano un buco nell’acqua.
L’anno dopo nella baia di Galveston viene ritrovato il corpo smembrato di un certo Morris Black; la polizia appura che l’uomo frequentava un vicino di casa, il quale si scopre essere nientemeno che Robert Durst sotto mentite spoglie (aveva persino preso l’abitudine di travestirsi da donna…); messo alle strette, Durst stavolta confessa l’omicidio di Black – ma esclusivamente per legittima difesa, essendo stato, a suo dire, aggredito – e anche la sua dissezione; dopo un periodo di latitanza e un successivo arresto, si celebra il processo nel quale Durst, assistito da uno dei migliori legali del Paese, viene incredibilmente assolto per il delitto e infine patteggia una pena di cinque anni per gli altri capi di imputazione.

Arriviamo così al 2010 quando il regista newyorkese Andrew Jarecki gira un noir ispirato a tutte queste vicende intitolato All Good Things (da noi, più banalmente, Love & Secrets); la pellicola, per quanto piuttosto interessante – con i dovuti distinguo, è una sorta di Gone Girl ante litteram – e nonostante la presenza di due attori del calibro di Ryan Gosling e Kirsten Dunst nei panni dei protagonisti, non ha il successo sperato e viene presto dimenticata dal pubblico; c’è però uno spettatore speciale che ne rimane colpito: si tratta di Durst stesso, il quale contatta Jarecky proponendogli di girare un documentario nel quale possa fornire la propria versione dei fatti.
Chi era dunque Robert Durst? Uno “jinx” (che letterlamente significa “iettatore” ma qui viene usato più nell’accezione di “sfigato”) che per qualche insondabile motivo si è sempre trovato al posto sbagliato nel momento sbagliato, oppure un emulo di Norman Bates?
La risposta appare persino scontata: l’inquietante cantilena degli Eels “Fresh Blood” (sigla azzeccatissima, neanche a dirlo) ci introduce di fronte ad un uomo dallo sguardo fisso e vitreo, con i suoi tic e i suoi momenti di vuoto (in diversi periodi della vita Durst ha avuto diagnosi di schizofrenia e Asperger), il quale dà i brividi solo a guardarlo e ad ascoltarlo mentre recita una macabra litania discettando indifferentemente del suicidio della madre, gettatasi da una finestra davanti ai suoi occhi quando aveva sette anni, o di come abbia scelto gli strumenti giusti per fare a pezzi un cadavere.
Ma Jarecky (già autore nel 2003 del documentario candidato all’Oscar Capturing The Friedmans, incentrato su episodi di pedofilia all’interno di una famiglia, il quale non mancò di suscitare aspre controversie per un presunto eccesso di “partigianeria” nei confronti degli accusati) – combinando con un montaggio serrato le interviste a Durst, quelle a persone coinvolte a vario titolo nella sua vita e nei suoi casi giudiziari, i documenti, i filmati di repertorio e le varie ricostruzioni – mette insieme con diabolica abilità un puzzle capace a un certo punto, paradossalmente, di indurre lo spettatore (in un parallelo voluto con la giuria popolare di Galveston) a nutrire il beneficio del dubbio nei suoi confronti; qui, a ben vedere, risiede il fascino di questo docu-thriller, perchè The Jinx – in un gioco delle parti tra un narcisista manipolatore e un uomo dietro una videocamera, ossia qualcuno che per mestiere sceglie quale angolo di visuale mostrare – diviene nello stesso tempo palcoscenico e retroscena, indagine nei meandri di una mente disturbata e contro indagine investigativa, confessione in forma di diniego e atto d’accusa contro un sistema poliziesco e giudiziario fortemente classista.
E il tutto non poteva che convergere nella casualità non casuale (perchè a tanto, in tutta evidenza, volevano arrivare entrambi) di un finale talmente memorabile e agghiacciante (che ha innescato, di nuovo, polemiche e strascichi giudiziari, ormai superati dal fatto che Durst si è portato via i segreti più reconditi della sua vita e delle sue morti concludendo l’avventura terrena a gennaio di quest’anno nel penitenziario di Stockton) da rappresentare in un colpo solo tutta la velenosa ambiguità del medium (che è, con McLuhan, il messaggio), evocando al contempo incidentalmente quell’immaginario “paranoico” sonoro che ha popolato soprattutto il cinema americano degli anni settanta (da La Conversazione Di Coppola a Blow Out di De Palma, per intenderci).
Se ogni genere ha suo un vertice insuperato, per quanto riguarda il “true crime” non possiamo che inchinarci con deferenza di fronte a The Jinx.