LETTERA H
LETTERA H
GENERE: horror, drammatico
ANNO: 2019
PAESE: Italia
DURATA: 85 minuti
REGIA: Dario Germani
CAST: Giulia Todaro, Marco Aceti
Un'auto maledetta, un amore sbagliato, una notte che non finisce mai: tra John Carpenter e il Mostro di Firenze, Lettera H - prodotto da Tonino Abballe, scritto da Andrea Cavaletto e diretto da Dario Germani - ci trasporta dentro un incubo ad occhi aperti, ribadendo la forza del nostro cinema di genere underground.
Lettera H è una pellicola che ho scoperto e visionato soltanto di recente, motivo per il quale non è citata nel pezzo dedicato tempo fa sul nostro blog all’immaginario pop legato al Mostro di Firenze; l’opera – che in realtà non tratta in maniera diretta la storia del più famoso serial killer italiano ma vi si collega argutamente in modo quasi “esoterico” per andare poi a parare in un’altra direzione -, è davvero degna di nota e quindi nel fare ammenda mi appresto a recensirla con piacere.
Il progetto nasce dal proposito del produttore Tonino Abballe e del filmmaker Dario Germani (“nato” come direttore della fotografia e poi passato dietro alla macchina da presa con alcuni lavori piuttosto interessanti come Ninna Nanna, Antropophagus II – sequel del mitico film di Joe D’Amato del 1980 – The Slaughter, La Mattanza – scritto da Antonio Tentori – e Do Ut Des – remake di un altro film di D’Amato, Emmanuelle & Francoise-Le Sorelline del 1975 -) di rielaborare una storia a fumetti, contenuta nella rivista horror Mostri, disegnata da Marcello Mangiantini e scritta da Andrea Cavaletto (molto noto in particolare per le sceneggiature di Dylan Dog e di Martin Mystère e per la collaborazione pluriennale con Domiziano Cristopharo); la vicenda, incentrata su una coppia che si apparta in un bosco all’interno della propria vettura, inizialmente ambientata in Sudamerica, viene spostata in Italia, e Abballe ha l’idea di introdurre l’elemento-Mostro di Firenze per potenziarne il carico di minaccia incombente.
In fase di sceneggiatura (scritta da Cavaletto stesso) questo input viene recepito facendo proprio dell’auto, in particolare una Fiat 127, la chiave di volta dell’intero plot: se nel passato era stata oggetto di culto per un’intera generazione di giovani in quanto mezzo di emancipazione (diventando addirittura la “più venduta d’Europa”, come vantava una pubblicità che viene riproposta nella pellicola insieme a diverse immagini di repertorio inerenti la sua produzione e la sua commercializzazione – molto belli i titoli di testa proprio ispirati a questo modello e alla sua targa -), tale viene fatta rimanere nel presente per Sebastian “Seba” – un carrozziere quarantenne dai trascorsi burrascosi e forse finalmente sulla strada della riappacificazione con i propri dèmoni attraverso il rapporto con la più giovane fidanzata Patrizia “Patty” -; ma ecco anche il lato oscuro di questa libertà, e con esso la brillante intuizione sulla quale si sostanzia Lettera H: immaginare che proprio quella 127 lì, comprata ad un’asta e rimessa a nuovo con cura maniacale, sia l’utilitaria sopra la quale, a metà di settembre del 1974, due ragazzi (Stefania Pettini e Pasquale Gentilcore) stavano amoreggiando in quel di Rabatta, nei pressi di Borgo San Lorenzo, quando il Mostro li sorprese trucidandoli senza pietà…
Anche qui si parte da un legame, turbato da quel poco di “maretta” che sembra riconducibile all’ostilità dei genitori (soprattutto la madre) di lei, poco propensi ad accettare in casa un individuo che considerano piuttosto losco; ma Patty non sente ragioni: è il compleanno di Seba, la serata prevede una tappa in un locale per salutare degli amici, ma il vero programma è quello di starsene un po’ da soli in un luogo tranquillo e al riparo da occhi indiscreti…
Cavaletto e Germani seminano allora le prime suggestioni: vediamo Carlo Lucarelli in tv, è quasi un rumore di fondo ma sta parlando di una storia drammatica di tanto tempo prima, una di quelle che da noi sembra non possano accadere e invece accadono, mentre dietro di lui si scorge l’inequivocabile mappa della Toscana con i luoghi dei delitti cerchiati; subito dopo veniamo catapultati negli anni ottanta, dentro un contesto apparentemente goliardico – una festa dove sono tutti mascherati da popstar mentre sul palco Tiziana Rivale (sì, proprio lei in carne ed ossa!) si esibisce cantando la sua Ash, prima di lasciare di nuovo spazio alle belle musiche della soundtrack di Mirco Cannella – ma che in realtà cela un retrogusto di inquietudine che non riusciamo ancora bene a “decodificare” (perchè in fondo, da cinefili scafati, sappiamo che quella è stata l’epoca d’oro dello slasher…); infine il bosco, laddove l’intuizione “carpenteriana” del veicolo “posseduto” e perciò a sua volta in grado di “agire” sulla psiche dei propri passeggeri si dispiega in tutta la sua potenza: la voglia del contatto fisico diventa improvvisamente ripulsa, il buio della notte si fa buio della mente e stato allucinatorio, appaiono “presenze” sempre più lubriche ed “invasive” che hanno le fattezze conosciute di “compagni di merende”, misteriosi dottori e iconici killer d’oltreoceano, mostri mediatici e mostri dell’inconscio, tra bossoli con la famigerata lettera sul fondello, atti osceni, spari, pugnalate e asportazioni di parti anatomiche.
Da questo punto in avanti il film decolla e Germani sale in cattedra con una regia sobria ma efficacissima nel catturare tutto il senso di terrore e di claustrofobia provato dai due protagonisti (interpretati dai bravi Marco Aceti e Giulia Todaro), giocando soprattutto con la messa a fuoco e i primi piani stretti (un elogio doveroso lo merita tutto il comparto tecnico che comprende la fotografia a cura dello stesso regista, gli effetti visivi di Luca Saviotti e il montaggio di Claudio D’Elia); va detto altresì che, in questo climax ascendente dove fanno capolino anche i numi tutelari di tutto il thriller-horror italico che si rispetti (ci riferiamo naturalmente a Bava ed Argento), l’autore romano non si tira certo indietro nel mostrare le più turpi atrocità (tra corpi straziati e “feticci” in bella mostra c’è di che soddisfare chi cerca il macabro e lo splatter…) – grazie anche al come sempre notevole lavoro del maestro Sergio Stivaletti agli effetti speciali -, scelta radicale e a suo modo controversa tenuto conto che tutto ciò rimanda a fatti realmente accaduti.
Eppure, paradossalmente, anche attraverso questo cazzotto in faccia teso a rimarcare che la violenza ferina e apparentemente senza senso può far parte di noi più di quanto siamo disposti razionalmente ad accettare, si palesa il vero “nocciolo” del film, quell’empatia per le vittime della quale prendiamo coscienza compiutamente in un segmento finale teso e palpitante, dove vengono al pettine in maniera tragica tutti i nodi irrisolti di una relazione “tossica” (tema quantomai attuale), nella perpetuazione di un male che sembra atavico e mediato da forze arcane.
In definitiva Lettera H – attualmente disponibile solo su piattaforma, in attesa di un’auspicabile uscita in home video – è la dimostrazione che con creatività e talento si possono realizzare ottimi prodotti anche non disponendo di grandi budget, e che di conseguenza per trovare certe perle nascoste bisogna cercare in lidi più indipendenti rispetto ad un mainstream che ormai puzza di stantio lontano un miglio.