Uno dei più noti esponenti del cinema indipendente italiano odierno ci presenta alcuni dei suoi punti di riferimento artistici in un documentario che è anche un omaggio ad alcuni dei suoi mentori divenuti, nel corso degli anni, preziosi collaboratori.
Abituati a vedere un Domiziano Cristopharo molto diverso, diviso tra introspezione psicologica ed immagini forti, si rimane abbastanza sorpresi di fronte a questo Indieocracy, un documentario dal registro, nel complesso, abbastanza tradizionale. In effetti, nello sviluppo del film, si palesa la precisa volontà del regista di omaggiare personaggi abbastanza noti del cinema italiano indipendente degli ultimi 30-40 anni, facendo un passo indietro e spendendosi totalmente per artisti che, tra l’altro, hanno collaborato con lui nel corso del tempo fornendogli, in un modo o nell’altro, spunti di crescita artistica. ‘Dedicato a tutti i sognatori’, come si legge alla fine dei credits, il documentario vuol essere anche una sorta di ‘bussola’ per chi volesse iniziare una carriera cinematografica in un momento come questo, che si può definire quantomeno poco propizio per un debuttante sprovvisto di spalle coperte dal punto di vista economico, ‘un sognatore’, appunto.
Il primo intervistato è il poliedrico regista siciliano Giuseppe (Beppe) Cino, per molti anni legato (e probabilmente anche limitato dal punto di vista artistico da questo tipo di scelta molto estrema) ad un cinema post-sessantottino, fortemente politicizzato. Cino, assistente alla regia per Roberto Rossellini, al quale ha dedicato anche un documentario, ha poi collaborato con la RAI e, successivamente, anche con alcune importanti televisioni nipponiche (TBS e NHK). Amante del cinema giapponese, Cino ha omaggiato Kaneto Shindo con un chiaro riferimento alla famosa maschera di ‘Onibaba’ nel suo ‘La casa del buon ritorno’, probabilmente la sua pellicola più nota, ed è stato anche collaboratore di Ichikawa. In carriera, comunque, il regista ha avuto modo di tastare anche il terreno più accidentato del cinema ultra- indipendente a bassissimo budget con pellicole come lo sfortunato ‘Fatal temptation’, interpretato da Loredana Romito. Tra gli argomenti più interessanti trattati in questo segmento c’è quello nel quale Cino ricorda i film cosiddetti ‘articolo 28’, per i quali lo stato elargiva importanti finanziamenti (fino al 30% delle risorse necessarie alla produzione), che tra gli anni ’60 ed ‘80 venivano usati dalla politica sia per ingraziarsi gli ‘amici’ che per controllare i ‘nemici’. Argomento spinoso questo, ma anche di stretta attualità, visto il recente annuncio governativo di un ulteriore taglio di fondi al cinema ed alla cultura in genere, perchè alcuni film finanziati dallo stato ‘hanno venduto solo 29 biglietti’, parola del ministro della cultura stesso. Interessante notare come nelle parole del ministro non ci sia ombra di autocritica sulle scelte fatte nel sostenere il cinema dal ministero, ma si pensi solo ad un effimero risparmio.
A Cino segue Claudio Lattanzi, grande amante dei romanzi gialli, che poi si avvicinò agli sceneggiati tv come ‘Belphagor’ ed ‘Il segno del comando’, per innamorarsi quindi del cinema di Dario Argento con ‘Il gatto a nove code’, del quale ricorda brevemente l’inizio, e ‘Suspiria’, che confessa di aver visto 77 volte al cinema e del quale possiede pellicola e sceneggiatura originale. Lattanzi iniziò la sua carriera con Soavi, altro ‘figlioccio’ di Argento, conosciuto sul set di ‘Phenomena’, col quale collaborò per un documentario sullo stesso Dario Argento, commissionato da un produttore giapponese nel 1985. Soavi presentò Lattanzi ad Aristide Massaccesi, col quale egli lavorò tra alti e bassi per qualche tempo, girando ‘Killing Birds’ (poi fortemente rimaneggiato dal produttore) che inizialmente si doveva chiamare ‘Artigli’. Di questo periodo Lattanzi ricorda le difficoltà legate al budget molto limitato e le eccessive ingerenze della produzione, anche per questo a ‘Killing birds’ seguirono molti anni di inattività, prima di ritornare al cinema, quando ormai si era passati dalla pellicola al digitale, con un documentario sul suo mentore Michele Soavi (Aquarius Visionarius) e ad una collaborazione con lo sceneggiatore Antonio Tentori per ‘Everybloody’s end’, film che fa da collegamento con il successivo segmento, dedicato proprio allo sceneggiatore romano.
Antonio Tentori, scrittore e sceneggiatore che in rari casi si è anche dilettato come attore, racconta i suoi esordi con Lucio Fulci, del quale era stato precedentemente un grande ammiratore, prima come collaboratore non accreditato in ‘Demonia’ e poi in ‘Un gatto nel cervello’, prima di incontrare Aristide Massaccesi per rivedere (non accreditato) una sceneggiatura scritta da Michele Soavi, che si concretizzò poi in ‘Frankenstein 2000’. Fu l’inizio di una lunga collaborazione con Massaccesi, sviluppatasi anche nel genere erotico, quasi sempre usando uno pseudonimo, a volte anche come aiuto regista. Arrivò poi la collaborazione con Sergio Stivaletti per un film che in origine avrebbe dovuto girare Lucio Fulci ed infine un’altra lunga cooperazione, questa volta con Bruno Mattei, conosciuto casualmente ad un festival cinematografico. Tentori fu lo sceneggiatore di quasi tutti i film dell’ultima fase del regista romano, quando operava nelle Filippine in digitale, con budget estremamente risicati. Dopo aver parlato dell’insuccesso di ‘Dracula 3D’, girato con Dario Argento, Tentori ci racconta della sua passione per Paperino, che inserisce spesso nei suoi film per gioco, in forma di pupazzetto.
Il segmento dedicato a Venantino Venantini è brevissimo, l’attore, al quale il film è dedicato, era già morto quando si girava il documentario, per cui sono presenti alcune battute registrate durante sessioni di trucco mentre lavorava con Cristopharo, col quale ha collaborato in 3 film (‘Museum of wonders’, ‘POE 3’ e ‘Bloody sin’). Gli aneddoti raccontati dal vulcanico attore di origine marchigiana, nei quali i protagonisti sono Dino Risi, Robert Mitchum ed il suo occhio di vetro e la coppia Vadim-Bardot, sono intramezzati da spezzoni dei film girati con Cristopharo.
Mirella D’Angelo fu una modella molto in voga negli anni ’70, che inizialmente pensava di essere inadatta alla professione perché troppo magra, un tipo di fisico che in realtà fu sdoganato in quel periodo dall’inglese Twiggy e divenne poi molto richiesto nelle sfilate. Notata per caso mentre lavorava come indossatrice, venne indirizzata, per un tentativo di lancio cinematografico, alla fotografa Eva Sereny, che collaborava proprio col mondo del cinema. La copertina del Sunday Times Magazine ad opera della Sereny fu in effetti notata dal regista Paolo Breccia, così la D’Angelo esordì al cinema con un ruolo secondario nello sci-fi sperimentale ‘Terminal’. Seguì il più impegnativo, dal punto di vista recitativo, ‘Italia a mano armata’ che precedette il suo incontro con Tinto Brass, che la scelse per ‘Caligola’ nonostante ella avesse rifiutato di sostenere un provino per la parte. Dopo ‘Caligola’ arrivarono molte opportunità lavorative, ma la giovane attrice preferì andare a New York per perfezionarsi studiando recitazione con Frank Corsaro, mentre si manteneva continuando a fare la modella. La D’Angelo tornò però in Europa dopo poco tempo, non potendo più rifiutare i copioni di grande importanza che le venivano proposti. Arrivarono quindi ‘Il cavaliere, la morte e il diavolo’ di Beppe Cino, ‘Hercules’ di Luigi Cozzi ma soprattutto ‘Tenebre’ di Dario Argento ed il teatro con Giorgio Albertazzi. In quel periodo la D’Angelo ebbe una relazione sentimentale con Dario Argento e strinse una buona amicizia con Federico Fellini, con il quale lavorò in ‘La città delle donne’. Dopo la morte di Fellini l’attrice si trasferì a Londra, ebbe una figlia e per alcuni anni abbandonò completamente la sua carriera cinematografica, ripresa solo di recente.
L’ultima intervista è per Gianni Paolucci, a lungo produttore di Bruno Mattei, si tratta di una testimonianza molto interessante anche perché, come tutti i produttori, Paolucci è una presenza assai rara in documentari ed interviste di questo genere. Nella prima parte della sua conversazione Paolucci parla della transizione tra analogico e digitale e di come da un lato la cosa abbia semplificato il suo lavoro, dall’altra però abbia reso più difficile fare altre cose (cita soprattutto la difficile gestione della luce) e, comunque, come con il passaggio al digitale il cinema indipendente italiano, al contrario di quanto si potesse pensare visto l’abbattimento dei costi, in realtà sia crollato, sia qualitativamente che quantitativamente. Tra le ragioni di questo crollo Paolucci suggerisce anche le richieste delle tv, che non volevano i film violenti e gli horror che erano stati i generi più prodotti in ambito B-movies in Italia, un pubblico cinematografico in grande calo ed anche, alla lunga, la crisi dell’home video. Nella seconda parte dell’intervista Paolucci è autore di una appassionata difesa del cinema di Mattei e delle sue grandi capacità tecniche, soprattutto in fase di montaggio.