SALTBURN
SALTBURN
GENERE: drammatico, thriller, dark commedy
ANNO: 2023
PAESE: USA
DURATA: 132 minuti
REGIA: Emerald Fennell
CAST: Barry Keoghan, Jacob Elordi, Rosamund Pike, Richard E. Grant, Alison Oliver
Rivelatasi un paio di anni or sono con un debutto sorprendente non solo per la spinosità dell'argomento trattato ma soprattutto per il modo in cui ha scelto di trattarlo, Emerald Fennell rilancia ora con la sua seconda fatica nella quale si conferma autrice capace di combinare l'alto e il basso attraverso un accattivante patchwork stilistico divenuto ormai marchio di fabbrica: commedia dark e spaccato impietoso dei nostri tempi, Saltburn è innanzitutto una delizia per gli occhi dei cinefili più esigenti, tra una regia sontuosa e la prova magistrale di Barry Keoghan.
Oliver Quick, ragazzo di umili origini e con alle spalle grossi problemi familiari, viene ammesso all’università di Oxford grazie ad una borsa di studio; l’impatto con l’ambiente snob ed esclusivo non è dei migliori, ma un giorno al giovane studente capita di aiutare Felix Catton, affascinante rampollo di una ricchissima famiglia aristocratica, rimasto a piedi dopo aver bucato una gomma della sua bicicletta; i due così diventano amici, e Oliver sembra sviluppare una sorta di ossessione per Felix, il quale alla lunga ne è infastidito; quando arriva la notizia della morte del padre di Oliver, però, Felix si riavvicina a lui e lo invita a passare l’estate nella sua dimora di Saltburn; Oliver accetta e, una volta giunto sul posto, comincia ad ambientarsi e ad insinuarsi sempre di più all’interno delle dinamiche degli stravaganti Catton; ma questo teenager all’apparenza timido e un po’ ombroso è davvero chi dice di essere oppure cela qualche segreto inconfessabile?
Saltburn dunque, “buen retiro” dei plutocrati Catton, ma in realtà più che un luogo fisico uno stato mentale (“un sogno, un aneddoto col quale poter annoiare i figli a Natale”, secondo Farleigh), un’idea di mondo (e quindi del mondo in quanto società dello spettacolo in continuo divenire – il film prende le mosse nel 2006 e si conclude ai giorni del Covid, anche se in realtà è sostanzialmente composto da un lungo flashback -) la quale – potendosi anche leggere in filigrana come allegoria dei reali inglesi con i loro scandali e quel retrogusto grottesco che da sempre li connota -, comprende le dimensioni del reality (a un certo punto si accenna al fatto che ogni estate viene invitato un nuovo “concorrente”, in qualità di amichetto prediletto di Felix, da aggiungere alla corte dei miracoli che più o meno in pianta stabile è “ospitata” dalla famiglia e usata come una sorta di teatrino dei “pupi” privato…) e del videoclip musicale, non potendo infine che sfociare nell’horror (vacui), ma sempre tenendo presente un marcato sottotesto di ironia british; non a caso questa è un’opera che si sostanzia su una grammatica ben precisa e studiata – a partire dal formato in 4:3 che esalta in particolare i primi piani ravvicinatissimi coi quali la regista intende cogliere ogni più recondita sfumatura emotiva ed estetica dei suoi personaggi -, guardando, grazie alla strepitosa fotografia cangiante di Linus Sandgren (premio Oscar per La La Land), indifferentemente a Stanley Kubrick (per l’uso delle luci naturali, in special modo negli austeri interni, e la concezione “labirintica” alla Shining) e all’estetica pop (si vedano lo sfrenato intermezzo sulle note di Time To Pretend degli statunitensi MGMT o il karaoke con Rent dei Pet Shop Boys – il cui video, girato da Derek Jarman, pare una sorta di “bignami” di Saltburn… -) per giungere al gotico in stile Hammer, come si evince sin dal font usato per i titoli di testa.
A sentire la regista londinese, Saltburn è in fondo proprio un film di vampiri (in una delle sequenze più controverse della pellicola la cosa viene dichiarata esplicitamente, omaggiando il genere), ed è una definizione interessante e calzante in senso lato, che punta a contestualizzare in una prospettiva maggiormente complessa le influenze più scoperte e ovunque citate; ci riferiamo, naturalmente, ad opere come Il Servo di Joseph Losey, Teorema di Pier Paolo Pasolini, Il Talento Di Mr. Ripley di Anthony Minghella, Il Sacrificio Del Cervo Sacro di Yorgos Lanthimos – col quale Saltburn condivide il protagonista principale in un ruolo simile ed anche una propensione a elaborare il tutto in chiave fantastica, che lì si sostanziava nella tragedia greca e qui prende invece strade più “fantasmatiche” e romantiche sia in modalità pittorica (la palette cromatica, lugubre e fiabesca allo stesso tempo, di certe inquadrature, soprattutto notturne, concepite come quadri che rimandano a questa corrente, lascia incantati, ed è un vero peccato non poter godere di tale ricercatezza sul grande schermo) che letteraria, alla Lord Byron e coniugi Shelley (a un certo punto la Fennell – quasi a mo’ di easter egg per gli spettatori più attenti – istituisce il parallelismo tra una celebre leggenda riguardante la dipartita di Percy Bysshe – nel naufragio del suo veliero mentre stava facendo ritorno verso San Terenzo dopo un soggiorno a Livorno – e la sorte di Felix, con tanto di fugace particolare premonitore…) -, e anche Chiamami Col Tuo Nome di Luca Guadagnino, del quale riecheggia l’ambientazione estiva unita alla componente omoerotica (senza dimenticare, però, che la suggestione ispiratrice di maggiore evidenza viene messa in campo sin dall’incipit in uno scambio di battute tra i due protagonisti: si tratta del romanzo di Evelyn Waugh – del quale si nota la decisa, e si suppone voluta, somiglianza col Barry Keoghan in modalità adulto ripulito e monologante – Ritorno A Brideshead, a sua volta trasposto in una serie della BBC nel 1981 e in un film del 2008 entrambi interpretati da Jeremy Irons).
Seguendo dunque questa traccia, risulta piuttosto chiaro chi siano e cosa rappresentino Felix (nomen omen, felice e gentile perchè ricco come i Park di Parasite, per quanto attraversato da ombre tutt’altro che rassicuranti: non sfuggono, ad esempio, un sottile atteggiamento manipolatorio non tanto distante da quello di Ollie, nonchè un tratto di gelosia nei confronti della sorella Venetia che potrebbe far sospettare qualche latente pulsione incestuosa…) e i suoi familiari – ossia un’élite cinica, ipocrita, stupida, completamente avulsa dal mondo reale, politicamente corretta a parole quanto disumana nei fatti -, ma altrettanto non si può invece affermare per quanto riguarda Ollie – “la falena che fa di tutto per entrare dalla finestra e alla fine ci riesce”, secondo la “radiografia” di Venetia -; Fennell lo tratteggia sì come un soggetto subdolo, machiavellico e appunto “parassita”, connotato anch’egli dall’assenza di qualsivoglia proposito di lotta di classe, sostituito dall’attrazione fatale per il denaro ed il potere che ne deriva, qui rappresentata alla stregua di un bruciante desiderio carnale (come volersi appropriare, attraverso il suggerne umori primigeni quali sperma, sangue e terra, non tanto dei corpi quanto delle anime e di conseguenza dello status dei propri ospiti): ma è davvero tutto qui, o forse c’è dell’altro?
A ben guardare, infatti, le motivazioni più profonde di Oliver Quick rimangono insondabili: l’“arguzia” appare come un destino insito nel suo nome (ed è evidente anche il rimando a Oliver Twist, l’iconico personaggio di Charles Dickens simbolo del riscatto degli emarginati di un’epoca vittoriana che comincia a presentare sinistre similitudini con la nostra; anche se lui, come si scoprirà, proprio derelitto non è, anzi, e questo rende ancor più enigmatico il suo agire…), ma i suoi potrebbero anche rivelarsi, ad un livello quindi ancora più perverso, atti eminentemente gratuiti come quelli di un novello Lafcadio – il misterioso giovane che appare nel romanzo capolavoro di André Gide I Sotterranei Del Vaticano -, ossia utili in modo esclusivo a dimostrare a sè stesso di poter essere capace di tutto, in un vivido ritratto degli aspetti psicopatologici sottesi a certi tipi umani i quali, spinti da narcisismo e sociopatia, si muovono come squali dentro quella “tonnara” che è diventata il nostro mondo, salvo poi essere considerati “cool” proprio perchè risultano vincenti.
Insomma, un individuo-matrioska molto contemporaneo (“Tu sei diverso, sei così reale” gli dice a un certo punto ancora Venetia, che ha evidentemente il ruolo di colei che “vede”) – a cominciare dall’incerta identità sessuale -, che non è ciò che mostra di essere ma nemmeno diventa più “afferrabile” quando sembra levare la maschera (non era un po’ così anche la Cassie di Una Donna Promettente?); e questa ambiguità non viene per nulla risolta da un finale che spiega ciò che già era di patente evidenza (lo scioglimento di un’esile trama gialla a guisa di mcguffin) ma tiene invece celati i nodi più reconditi, lasciando in sospeso le conseguenze future di questi “omicidi sulla pista da ballo” (Murder On The Dancefloor è la hit di Sophie Ellis-Bextor sulla quale la Fennell fa scatenare Keoghan in un piano sequenza a briglia sciolta già divenuto cult, speculare a quello nel quale Ollie era stato accompagnato a conoscere la magione dal suo anfitrione Felix).
Ecco, senza nulla togliere a Jacob Elordi (il belloccio e fatuo Felix), a Alison Oliver (la problematica Venetia), a Carey Mulligan (che si ritaglia il piccolo e intrigante ruolo dell’amica svampita Pamela dopo la struggente performance nel precedente film della Fennell), ad Archie Madekwe (lo spocchioso cugino Farleigh), a Richard E. Grant (lo strambo Sir James Catton) e a Rosamund Pike (ancora una volta superlativa nei panni di Lady Elspeth Catton, matrona annoiata e algida), va detto che Saltburn è in tutto e per tutto il film di Barry Keoghan, il quale offre una dimostrazione di possibilità espressive e improvvisative talmente degna di nota (ma non nuova, per chi lo ha già ammirato negli ultimi anni di costante ascesa) da arrivare a trascendere la finzione stessa come atto persino catartico (la biografia fittizia che il suo personaggio usa per suscitare compassione rielabora parte del reale vissuto dell’attore – ci riferiamo alla madre tossicodipendente morta per overdose quando lui aveva dodici anni -), un mettersi a nudo (sia letteralmente, nel già menzionato finale, che metaforicamente) in modo così intimo degno del mostro sacro al quale più si ispira (al punto da chiamare suo figlio Brando…).
Accogliamo di nuovo con entusiasmo il grande cinema teorico di Emerald Fennell, la quale usa il suo manierismo eccentrico così scoperto e programmatico come uno specchio capace di catturare il reale per astrazione, riflettendo la frammentarietà e il deserto etico del nostro presente.