Scritto e diretto dal ginevrino Alexandre O. Philippe (non nuovo ad operazioni di questo tipo, si vedano ad esempio The People Vs George Lucas, 78/52 Hitchcock E La Doccia Che Ha Cambiato Il Cinema, Nella Mente Dell’Esorcista-Le Confessioni Di William Friedkin), questo documentario punta a contestualizzare da varie angolature la profonda influenza esercitata dal film Il Mago Di Oz, diretto da Victor Fleming nel 1939, in particolare sulla produzione di David Lynch (ammessa dal regista stesso, il quale ne parla come di una vera e propria ossessione) ma anche, più in generale, sul cinema americano tout court; l’opera è strutturata in sei segmenti all’interno dei quali altrettanti addetti ai lavori – accompagnando, in qualità di voci narranti, un collage di immagini di repertorio -, discutono il tema proponendo le loro chiavi di lettura.
Apre le danze la critica Amy Nicholson rilevando come il film di Fleming rappresenti la quintessenza della “favola americana” e proponendo un gustoso parallelo tra le peripezie della protagonista Dorothy (nome che Lynch ha utilizzato non a caso per il personaggio chiave di Velluto Blu, uno dei suoi film più significativi) e la vita del regista stesso, il quale ha sempre dato l’impressione di aver mantenuto una sorta di innocenza fanciullesca, ritenendo il viaggio terreno un percorso pieno di sorprese da affrontare col giusto atteggiamento; il Montana di Lynch e il Kansas di Dorothy vengono allora a sovrapporsi, mentre molti elementi trapassano da una pellicola alle altre (le scarpe rosse, le tende, gli anacronismi quasi magici di certe sequenze come quella di Cuore Selvaggio nella quale Sailor ferma la musica metal cominciando ad intonare un pezzo di Elvis…); questo flusso di coscienza nel quale Lynch si trova immerso (corroborato dalla pratica di una disciplina come la meditazione trascendentale) viene allora a riverberarsi putualmente nelle sue opere sotto forma di “fughe psicogene” attraverso le quali è possibile illuminare il lato nascosto delle cose transitando da una dimensione reale ad una fantastica: se Il Mago Di Oz è definito dal vento sin dalla sigla di apertura, ecco che Lynch si appropria di questo elemento per simboleggiare appunto questo passaggio attraverso lo spostarsi delle tende a mo’ di sipario…
Il film di Fleming rappresenta in definitiva una sorta di linguaggio comune (essendo popolarissimo ed ormai entrato nell’immaginario collettivo) al quale Lynch attinge per rendere più accessibili le proprie creazioni.
Il regista Rodney Ascher (celebre per Room 237, documentario nel quale sviscerava i mille possibili significati nascosti racchiusi dentro Shining di Stanley Kubrick) integra il ragionamento riferendosi ad uno dei topoi classici del cinema americano, ossia quello dell’uomo che si trova fuori dalla sua zona di comfort e deve superare delle prove per fare ritorno ad una sorta di idillio perduto; questo è rintracciabile non solo nella filmografia di Lynch, dove molti personaggi si trovano nella esatta situazione di Dorothy (da Paul Atreides a Jeffrey Beaumont sino ad arrivare a Nikki Grace) ma anche in tantissime altre pellicole di grande successo (pensiamo ad esempio a Ritorno Al Futuro).
Ascher si serve del concetto di “membrana” per indicare questa intercapedine tra mondi, con i relativi personaggi che la influenzano, introdotta da un film come Il Mago di Oz e poi fatta propria in particolare dalla poetica lynchiana (ma si possono trovare tanti esempi: si vedano un’opera come Anna Dei Miracoli con i suoi inserti onirici, o anche, in qualche misura, molte pellicole di Stanley Kubrick – “dove finisce l’arcobaleno” è il luogo per “iniziati” in Eyes Wide Shut… -, ma anche film di genere come Nightmare o Matrix); in questo senso è paradigmatico il finale di Twin Peaks Il Ritorno con Cooper e Carrie che, tra le molteplici realtà possibili, si trovano intrappolati in quella del nostro mondo attuale, rimanendone sconvolti (ricordiamo infatti che, con un colpo di genio dei suoi, Lynch fa aprire loro la porta dalla effettiva proprietaria della casa nella quale è girata la sequenza…).
Spazio poi ad un altro regista molto peculiare, il bizzarro John Waters, il quale illustra le affinità tra il suo cinema e quello di Lynch partendo appunto dal debito di riconoscenza comune nei confronti di Il Mago Di Oz e spaziando poi da un certo tipo di senso dell’umorismo grottesco sino ad una dinamica attrattiva/repulsiva nei confronti degli anni cinquanta.
La regista Karyn Kusama vede Mulholland Drive come una sorta di Mago Di Oz a rovescio, ma ne coglie paradossalmente un lato ottimista: Lynch infatti per tre quarti del film offre allo spettatore il lato potenzialmente migliore dei suoi personaggi e non le loro miserie umane, perchè per lui il male conferisce significato al bene; la Kusama poi, partendo dalla figura della protagonista Judy Garland e dal celebre motivo Somewhere Over The Rainbow eseguito in playback nel film, nota come Lynch abbia interiorizzato Oz proprio a partire da questa specifica sequenza (una Dorothy davanti al sipario), al punto da riproporla svariate volte nella sua filmografia (da Velluto Blu sino al Club Silencio di Mulholland Drive ecc.); nota altresì come Lynch utilizzi, rifacendosi ad Oz, il trucco in maniera iperrealista per creare sconcerto attraverso primi piani stretti dei personaggi, tornando in questo alle radici del teatro; i suoi protagonisti poi, come Dorothy, sono spesso modellati sul topos del detective, e continuano ad aprire porte che non dovrebbero essere aperte, poiché hanno la smania di conoscere la verità.
La coppia di registi Justin Benson e Aaron Moorhead (conosciuti principalmente per VH/S:Viral) prosegue su queste stesse coordinate, sottolineando la trasversalità della forza archetipica di Oz (“il viaggio dell’eroe” capace di conquistare cineasti di diversa estrazione e linguaggio: si va dal Martin Scorsese di Alice Non Abita Più Qui e Fuori Orario, al Francis Ford Coppola di Apocalypse Now – con Kurz nelle vesti contemporaneamente di mago e di strega -, al Dario Argento di Suspiria sino al Guillermo Del Toro di Il Labirinto Del Fauno e La Spina Del Diavolo e ai fratelli Coen di Il Grande Lebowski); parlando di Cuore Selvaggio, sottolineano come sia permeato completamente dello spirito di Oz, al punto che per i personaggi il film rappresenta un vero e proprio ideale di vita (ne citano ripetutamente battute e situazioni): il patrimonio culturale sedimentato nella coscienza comune viene qui usato per affermare che queste anime vagano senza avere una casa.
Il già ricordato immaginario degli anni cinquanta e il conseguente portato di vari “doppelganger” si evidenzia anche nel modo in cui spesso nei film di Lynch vengono trattate le donne (pensiamo sempre a Dorothy alla mercè del luciferino Frank Booth in Velluto Blu o al rapporto tra Laura Palmer e il padre Leland in Twin Peaks): questa dicotomia tra luce ed oscurità, sogno americano contro incubo, afferisce proprio con la parabola della Garland (star precoce sullo schermo con una vita bruciata dagli eccessi), spesso infatti oggetto di affettuosi “omaggi” (il Maggiore “Garland” Briggs e la misteriosa “Judy” di Twin Peaks, via “Garland” in Strade Perdute ecc.).I due coniano per Lynch la curiosa definizione di “surrealista populista”, intendendo connotare il suo cinema di tratti sicuramente criptici ma allo stesso tempo piuttosto intelleggibili perchè ancorati ad un sentire diffuso nella società americana.
In conclusione un regista tra i più interessanti della nuova generazione come David Lowery parte dal presupposto che la demolizione del sogno americano sottesa ad un film come Il Mago Di Oz, e poi di conseguenza anche al cinema di David Lynch, possa essere apprezzata solo dopo ripetute visioni e grazie ad una certa maturità di sguardo (poiché la disillusione è uno dei presupposti necessari per la crescita), riflettendo poi sui temi ricorrenti che contraddistinguono ogni autore. Lynch/Oz si segnala dunque come un prodotto di ottimo livello, capace di intrattenere e di introdurre all’arte del genio di Missoula attraverso alcuni spunti piuttosto originali ed inconsueti.