Suzume: un viaggio emotivo attraverso le ferite del Giappone contemporaneo

Il capolavoro di Makoto Shinkai, "Suzume" (Suzume no Tojimari - すずめの戸締まり), si rivela un'opera stratificata che trascende il semplice intrattenimento, esplorando con delicatezza e profondità le cicatrici collettive della nazione giapponese. Attraverso il viaggio della giovane protagonista diciassettenne, Shinkai costruisce una metafora potente sul rapporto tra memoria, trauma e guarigione, invitandoci a riflettere sulle fondamenta emotive che sostengono l'identità di un popolo.

Con una magistrale fusione di elementi fantastici e realistici, l’anime si erge come una meditazione visivamente sbalorditiva sulla resilienza umana di fronte alle catastrofi, sia naturali che esistenziali.

L'architettura narrativa di una nazione ferita

“Suzume” si presenta come il terzo capitolo di una trilogia tematica informale iniziata con “Your Name” e proseguita con “Weathering With You”, in cui Makoto Shinkai esplora il rapporto tra l’uomo, la natura e i disastri che hanno segnato il Giappone contemporaneo. La trama segue Suzume Iwato, un’ adolescente che incontra casualmente Souta, un ragazzo universitario che cerca di chiudere misteriose porte da cui fuoriescono forze distruttive. Quando egli viene trasformato in una sedia a tre gambe parlante, Suzume intraprende un viaggio attraverso il Giappone per chiudere queste porte dimensionali e riportare Souta alla sua forma umana.

Questo impianto narrativo apparentemente semplice e stravagante nasconde una ricchissima trama di significati. Le “porte” che i protagonisti devono chiudere non sono semplici oggetti fantastici, ma rappresentano ferite aperte nel tessuto spazio-temporale del Giappone, cicatrici lasciate dal devastante terremoto e tsunami del 2011 (il Grande Terremoto del Tōhoku) e, più in generale, dai numerosi cataclismi che hanno colpito l’arcipelago. Shinkai, che ha sempre utilizzato gli elementi naturali come manifestazione emotiva, trasforma questi varchi in metafore tangibili del dolore collettivo non elaborato.

La scelta di rappresentare Souta come una sedia non è casuale: la sedia a tre gambe simboleggia la precarietà, l’instabilità, eppure anche la resilienza di un oggetto che, nonostante manchi di una componente fondamentale, continua a svolgere la sua funzione. Come la società giapponese dopo i traumi subiti, la sedia-Souta incarna la capacità di adattamento e sopravvivenza pur nella menomazione.

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Paesaggi emotivi e architettura della memoria

Ciò che rende “Suzume” un’opera di straordinaria profondità è il modo in cui l’autore costruisce una corrispondenza tra paesaggi fisici e paesaggi emotivi. Il viaggio della protagonista attraverso il Giappone non è solo geografico, ma anche temporale e psicologico. Ogni luogo visitato rappresenta un diverso stadio nell’elaborazione del lutto collettivo: dalle zone ancora visibilmente devastate dal terremoto alle città ricostruite dove la memoria del disastro si è sedimentata nell’inconscio collettivo.

L’architettura diventa così un elemento centrale nel film. Gli edifici abbandonati, le strutture pericolanti, le case vuote sono tracce visibili di vite interrotte, di storie sospese. Non è un caso che Souta sia interessato allo studio dell’architettura: comprendere e preservare le costruzioni umane significa mantenere viva la memoria di chi le ha abitate. Le porte, poi, sono un elemento architettonico che per definizione separa e connette spazi diversiproprio come il trauma rappresenta una soglia tra il “prima” e il “dopo” nella vita di chi lo subisce.

Makoto utilizza magistralmente le potenzialità dell’animazione per mettere in scena visioni oniriche di questi paesaggi che possiamo definire emotivi. Quando Suzume entra nel “lato oscuro” delle porte, si trova in versioni distorte e surreali dei luoghi reali, dove l’acqua – elemento ricorrente nella filmografia del regista e simbolo potente dello tsunami – assume forme impossibili, fluendo verso l’alto o sospendendosi nello spazio, rappresentando visivamente il sovvertimento che il trauma opera nella psiche.

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Il Verme e la personificazione del disastro

Tra gli elementi più affascinanti del metatesto di “Suzume” troviamo il Worm (Verme), l’inquietante antagonista del film. Questa creatura primordiale che vive sotto il Giapppone e che cerca di aprire le porte, rappresenta la forza distruttiva della natura, ma anche la tentazione di lasciarsi sopraffare dal dolore dei propri traumi personali.

La battaglia contro il Worm non rappresenta quindi solo la lotta contro le catastrofi naturali, ma anche il confronto necessario con il proprio dolore, con la tentazione di lasciarsi trascinare nell’abisso della malinconia piuttosto che intraprendere il difficile cammino della guarigione. Quando la protagonista finalmente comprende e accetta il Worm, riconoscendolo come parte integrante della vita, assistiamo a una potente metafora della resilienza: non si tratta di sconfiggere completamente il dolore, ma di imparare a conviverci, trasformandolo in una forza costruttiva anziché distruttiva.

Temporalità circolari e la guarigione collettiva

“Suzume” esprime una concezione del tempo che si allontana dalla linearità occidentale per abbracciare una temporalità ciclica più vicina al pensiero orientale. Le catastrofi, nel film, non sono eventi puntuali ma manifestazioni di forze primordiali che ciclicamente ritornano – come il Verme, che esiste da tempo immemorabile. Questo richiama il concetto shintoista di rinnovamento e purificazione ciclica, ma anche una concezione del trauma come qualcosa che non viene mai completamente superato, ma piuttosto integrato in nuovi cicli di vita.

La chiusura delle porte non identifica la cancellazione del passato traumatico, bensì un suo contenimento consapevole. Significativamente, esse non vengono distrutte, ma semplicemente chiuse – con la consapevolezza che potrebbero riaprirsi. Questa visione offre una prospettiva profondamente umana sul rapporto con il trauma: la guarigione non è uno stato definitivo, ma un processo continuo che richiede vigilanza e cura.

La scena culminante in cui tutti i personaggi incontrati durante il viaggio partecipano, ciascuno a proprio modo, alla chiusura dell’ultima porta rappresenta una potente metafora della guarigione come processo collettivo. Nessuno può elaborare il trauma da solo; è necessaria la partecipazione dell’intera comunità. Questa visione risuona profondamente con l’ethos giapponese del supporto comunitario e della responsabilità condivisa.

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La trasformazione del sé come metafora cinematografica

Un ulteriore livello di lettura  dell’opera riguarda la riflessione meta-cinematografica sul potere dell’arte – e dell’animazione in particolare – come strumento di elaborazione collettiva del trauma. Non è casuale che Shinkai utilizzi così frequentemente trasformazioni e metamorfosi: Souta diventa una sedia, il Verme assume diverse forme, persino Suzume subisce una temporanea trasformazione quando viene “intrappolata” in un luogo surreale.

Queste metamorfosi non sono solo espedienti narrativi, ma richiamano la capacità dell’animazione giapponese di trasformare la realtà in qualcosa di altro, di rielaborarla artisticamente per renderla comprensibile ed emotivamente gestibile. L’intera filmografia di Shinkai può essere letta come un tentativo di metabolizzare attraverso la bellezza visiva e narrativa le ferite collettive della società giapponese.

In questo senso, “Suzume” rappresenta anche una metafora del cinema come porta: uno spazio liminale dove realtà e immaginazione, passato e presente, trauma e guarigione possono incontrarsi e dialogare. Lo spettatore, come Suzume, attraversa queste porte per confrontarsi con verità difficili, ma ne esce trasformato e, potenzialmente, guarito.

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Conclusione: un'opera di straordinaria poesia visiva e profondità tematica

Questo gioiello anime si conferma come uno dei lavori più maturi e stratificati di Makoto Shinkai, un’opera che utilizza la fantasia non come fuga dalla realtà, ma come strumento per comprenderla più profondamente. Attraverso la sua straordinaria poesia visiva – con i suoi cieli impossibili, le acque danzanti e i paesaggi mozzafiato – il film ci invita a contemplare il modo in cui elaboriamo collettivamente i traumi, come preserviamo la memoria senza esserne sopraffatti, come troviamo la forza di andare avanti pur portando con noi le cicatrici del passato.

In un’epoca segnata da crisi globali e traumi collettivi, il messaggio risuona ben oltre i confini del Giappone, offrendo una riflessione universale sulla resilienza umana e sul potere curativo della condivisione del dolore. Come la protagonista alla fine del suo viaggio, anche noi spettatori usciamo dalla visione trasformati, con una comprensione più profonda di cosa significhi guarire – non tornando a ciò che eravamo prima, ma diventando qualcosa di nuovo, più forte proprio nei punti in cui ci siamo spezzati.

John il boia Ruth

Sono Gilberto, alias John il boia Ruth, la mente che ha dato forma a questo progetto. Nella vita mi occupo di web: dal marketing alla grafica, dalla progettazione di siti ai Social Network. Ne I Cinenauti ho voluto fondere il mio lavoro, che amo, con la mia più grande passione, il cinema. Prediligo gli horror, meglio se estremi e disturbanti, i thriller, i fantasy e i film d'azione. Insomma divoro qualsiasi cosa cercando di non farmi condizionare dai pregiudizi.