L’ORTO AMERICANO

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GENERE:         Horror

ANNO:             2024

PAESE:             Italia

DURATA:         107 minuti

REGIA:             Pupi Avati

CAST:             Filippo Scotti, Roberto De Francesco, Armando De Ceccon, Chiara Caselli, Rita Tushingham

Alla soglia dei sessant'anni di carriera, Pupi Avati riesce ancora una volta a dare forma alle nostre paure più recondite: L'Orto Americano, gioiello di pura atmosfera che guarda ai classici senza tradire i propri luoghi del cuore, è l'ulteriore imprescindibile tassello di una personale “opera al nero” che ha fatto scuola.

Siamo a Bologna subito dopo la Liberazione: un’ausiliaria americana entra da un barbiere per chiedere un’informazione; il ragazzo che si sta servendo rimane folgorato dalla sua “aura” e se ne innamora all’istante, portando con sé quell’attimo di felicità. Anni dopo si reca a vivere nel Midwest con l’intento di scrivere il romanzo che lo dovrebbe consacrare come scrittore affermato, ma il soggiorno comincia a riservare sorprese angoscianti: prima sente strane voci provenienti dall’orto dirimpetto e una notte vi rinviene un’arbanella contenente resti femminili in formalina, poi crede di riconoscere la ragazza in Barbara, la figlia della sua anziana e malata vicina di casa, venuta in Italia al seguito delle truppe alleate e misteriosamente scomparsa.
Decide allora di seguirne le tracce, arrivando così nel paese di Argenta, in provincia di Ferrara, dove si sta celebrando il processo ad un uomo accusato di aver ucciso e smembrato alcune giovani dopo averle circuite, tra le quali forse anche Barbara stessa; l’indagine si arricchirà di altri sconcertanti risvolti, facendo precipitare lo scrittore nei paraggi della follia.

Tratto dal suo romanzo omonimo scritto nel 2023, L’Orto Americano fonde i “luoghi” d’elezione del cinema più oscuro di Pupi Avati, il delta del Po e l’Iowa di Bix Beiderbecke (la prima parte del film è girata a Davenport nella dimora del leggendario jazzista, che il cineasta ha acquistato anni fa), ampliando stavolta l’orizzonte sia a suggestioni provenienti dal noir anni quaranta (si va da La Scala A Chiocciola di Robert Siodmak – preso ad ispirazione anche per il tema musicale, eseguito con la sega suonata con l’archetto – a Laura/Vertigine di Otto Preminger, passando naturalmente per molto Hitchcock, in primis Rebecca, senza contare un caposaldo come Quarto Potere per certe opzioni di regia e di illuminazione; ma ci sono “corrispondenze” anche con uno dei thriller seminali del cinema italiano, La Donna Del Lago di Luigi Bazzoni del 1965), che ad altri rimandi più curiosi come quello alla vicenda del Mostro di Firenze (anche qui abbiamo un serial killer che asporta gli organi sessuali alle sue vittime).

Avati muove da una cifra di autobiografismo, evidente nella figura del protagonista – un giovane con velleità artistiche non comprese che intrattiene un personale dialogo coi propri cari defunti (abitudine che lui stesso ha confessato di praticare da tempo) e per questo viene ritenuto insano di mente -, attraverso la quale esprime questo sentirsi da sempre un po’ “laterale” rispetto al mondo, e in particolare al mainstream del proprio mestiere, consegnandoci l’assunto di fondo secondo il quale forse i cosiddetti pazzi sono invece le persone più lucide e capaci di decifrare il caos che ci circonda; ne consegue, come filo conduttore, il binomio amore/morte, inscindibile e aperto ad un ampio spettro di possibilità: il regista bolognese esplora il compenetrarsi tra un sentimento ossessivo, indagato nella sua doppia natura di “trasporto” per una presenza che, da tangibile per un attimo fuggente, si fa eterea e quasi “angelicata” (non dimentichiamo che, non più tardi di tre anni orsono, Avati ha girato un film dedicato al Sommo Poeta; qui invece non si fa mancare citazioni dei lirici greci Archiloco e Bacchilide, usate come chiave per uno dei suoi tipici enigmi “esoterici”…), ma anche di “tarlo” che conduce alla più turpe perversione, ed un aspetto che invece da “mentale” diviene, tornando alla terra d’origine, più tangibile, “materico” (decomposti, squartati, massacrati dalle fucilate, i cadaveri stanno accanto ai vivi e vengono addirittura venduti da uno di quei personaggi che solo lui è capace di scrivere e rappresentare in maniera così credibile anche solo nello spazio di poche sequenze).

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Avati opta per una narrazione dai toni onirici e sospesi, tutta basata sulle percezioni in prima persona del protagonista (il quale, significativamente, non ha nome), dove gli effetti sonori, le incursioni nel macabro e nel soprannaturale (straordinari come al solito sono gli effetti speciali di Sergio Stivaletti) ed alcuni anacronismi (uno su tutti la pena di morte, che nel dopoguerra in Italia era stata abolita) denotano questo scarto tra reale e immaginario; e a proposito della vicenda processuale, centrale per lo sviluppo della trama, non manca di stigmatizzare certe pulsioni belluine da sempre insite in ampi strati della popolazione (la soppressione di colui che è individuato come reo risulta consequenziale alla sua disumanizzazione – difatti in aula entra nella gabbia strisciando come un animale – e serve per placare la sete collettiva di vendetta – si vedano gli applausi per il plotone di esecuzione – ristabilendo un ordine, per quanto fittizio – siamo dalle parti della teoria del capro espiatorio di Renè Girard -), nonché un’amministrazione della giustizia spesso approssimativa e classista.

L’Orto Americano si prende dunque i suoi tempi per creare un’atmosfera sottilmente morbosa e intrattiene un dialogo con i suoi predecessori “gotici” (le case maledette, le acque limacciose, i caratteri di paese, la corsa disperata del protagonista identica a quella di Lino Capolicchio nel capolavoro del 1976), riunendo anche tanti amici di vecchia data in camei più o meno consistenti (Rita Tushingham nei panni della madre di Barbara, Chiara Caselli in quelli della locandiera Doris, Massimo Bonetti che interpreta il presidente della Corte, Andrea Roncato e Nicola Nocella – rispettivamente un maresciallo dei Carabinieri e un paziente della clinica psichiatrica -), mentre a reggerne le fondamenta troviamo il giovane Filippo Scotti – già segnalatosi come protagonista di È Stata La Mano Di Dio di Paolo Sorrentino e qui capace di esplorare un variegato spettro emotivo in una prova che ne certifica una volta di più il talento cristallino (interessante anche la decisione di non doppiare la parte del film ambientata negli Stati Uniti, lasciando i dialoghi in inglese con i sottotitoli) – e un grande Roberto De Francesco nel ruolo dell’ambiguo Emilio Zagotto, fratello del presunto pluriomicida Glauco.

Tuttavia non si ha mai per un attimo la sensazione di assistere ad una pellicola senile, anzi non stupisce che lo stesso Avati abbia dichiarato di aver percepito, mentre la girava, che per la prima volta nella sua carriera stava facendo del vero cinema; affermazione certo esagerata, però è fuor di dubbio come, tra movimenti di macchina molto ricercati, sfruttamento mirabile della profondità di campo e complesse inquadrature grandangolari dal basso verso l’alto (omaggio a quelle del grande Gregg Toland nel “magnum opus” di Orson Welles), studiate per trasmettere inquietudine attraverso l’incombere dei personaggi, si avverta la notevole cura formale con la quale l’autore ha inteso mettere in scena questo suo nuovo viaggio nelle più aspre profondità della psiche; tali scelte stilistiche, corroborate dalla splendida fotografia del sodale di vecchia data Cesare Bastelli – che ha abbandonato i lugubri toni seppiati del Signor Diavolo per un raffinato bianco e nero denso di chiaroscuri – e dal montaggio cadenzato di Ivan Zuccon, rappresentano un ulteriore passo in avanti nella definizione teorica di quell’immaginario orrorifico del tutto originale – situato a cavallo tra la dimensione terrena e l’aldilà nonchè tra il vecchio e il nuovo mondo, e legato ad un retroterra culturale di stampo contadino e ad un certo tipo di religiosità arcana – che il maestro felsineo è riuscito a plasmare nel corso dei decenni.

Onore in definitiva a questo “giovanotto” di ottantasei anni capace ancora di impartire lezione a tutta quella pletora di “nipotini” schiavi della banalità stereotipata di tanti prodotti usa e getta.

Anton Chigurh

Mi chiamo Mattia, alias Anton Chigurh, classe 1975, ho fatto studi classici e sono orgogliosamente spezzino; cosa chiedo ad un film o ad una serie tv? Di farmi riflettere, di inquietarmi, di lasciarmi a bocca aperta, di divertirmi... Per sapere dove trovo tutto questo, leggete le mie recensioni su I Cinenauti!