AUDITION

GENERE: horror
ANNO: 1999
PAESE: Giappone
DURATA: 111 minuti
REGIA: Takashi Miike
CAST: Ryo Ishibashi, Eihi Shiina, Tetsu Sawaki, Jun Kunimura, Renji Ishibashi, Miyuki Matsuda, Toshie Negishi, Ren Osugi
Audition. Aoyama è un uomo ancora giovane rimasto vedovo e con un figlio adolescente; esortato da quest'ultimo a trovare una nuova compagna di vita, ne parla con l'amico Yoshigawa, un produttore cinematografico, il quale gli propone di mettere in piedi un'audizione per il cast di un film che non verrà mai girato, in modo da poter conoscere e valutare un buon numero di pretendenti; tra tutte quelle che si presentano Aoyama rimane colpito dalla dolce e timida Asami, la quale dichiara un passato di ex ballerina fermata da un grave incidente; nonostante i dubbi espressi da Yoshigawa, il quale si è accorto che le referenze indicate sul curriculum sono false o non verificabili, Aoyama decide di approfondire la conoscenza della donna e la contatta per trascorrere del tempo insieme; la scelta però sarà gravida di terribili conseguenze...
Takashi Miike, nato nella prefettura di Osaka nel 1960, è uno degli autori più prolifici, versatili e geniali del cinema giapponese degli ultimi trent’anni; è pressochè impossibile stare dietro alla sua sterminata produzione – che comprende film per il cinema, per la tv e direttamente per l’home video – ma possiamo affermare che la sua maggiore vena creativa si situa tra la fine degli anni novanta e la prima metà degli anni duemila; tra le vette di questo fertile periodo troviamo la pellicola in questione, tratta da un racconto di Ryu Murakami, la quale, se vogliamo, è anche piuttosto anomala per gli standard di un artista che ha fatto della “follia” e dell’“estremo” un tratto distintivo e riconoscibile della propria poetica; Audition risulta infatti un film impressionante non tanto per quei due o tre dettagli splatter o disgustosi assolutamente sotto la media del genere (e non parliamo poi della media di Takashi Miike o del cinema orientale tout court…) ma per come concettualmente affronta alcuni temi cardine della nostra esistenza correlandoli con la realtà sociale del proprio paese.
Quanto può pesare la solitudine nella vita di un essere umano? Tanto, risponde Takashi Miike, soprattutto se è frutto di circostanze avverse; ma dobbiamo anche adoperarci affinchè la vita di coppia non sia solo l’adesione ad un canone sociale tramandato di generazione in generazione, oppure un rifugio che alla lunga si trasformi in smania di possesso esclusivo.
Il “casting” è la metafora efficacissima di questo gioco delle parti “amoroso”, nel quale nessuno scopre sino in fondo le proprie carte, un’“audizione” dove si “vende” un immagine di sé – e qui Takashi Miike, mostrandoci una sfilata di volgari “starlettes” disposte a tutto (ricordiamo che siamo in epoca pre-social…), ne approfitta anche per censurare l’arrivismo connaturato al mondo dellospettacolo – ma ci si dimentica di “audire” veramente, ossia ascoltare l’altro, entrare in empatia con lui; nelle parole spesso risiede la menzogna, allora è forse soltanto il dolore che ci fa comprenderechi siamo, ma, attenzione, a volte anche fraintendere o non cogliere le qualità positive di chi abbiamo di fronte…
Takashi Miike frammenta la narrazione, confonde i punti di vista, dona al film la cadenza di un’asimmetrica seduta psicanalitica, tra derive oniriche di taglio lynchiano (ma forse lo stesso Lynch prenderà spunto da certe soluzioni Miikiane, in uno scambio vertiginoso tra Maestri della settima arte) e arditi simbolismi; per sottolineare questo impianto di fondo modula le inquadrature e la “tavolozza” fotografica a seconda del “mood” di ogni sequenza – complice un sonoro che lavora quasi a livello subliminale per creare momenti di tensione assoluta – , e cuce il “puzzle” con un montaggio “chirurgico” che sale in cattedra nella seconda parte: concepisce così uno spartito camaleontico e sfuggente, di grande eleganza formale, ora intriso di un cupo romanticismo ora bruciato dal fuoco della perversione e di una controllata ferocia.

Pur consegnandoci, con la Asami della splendida Eihi Shiina, un’iconica protagonista (quel “kiri kiri kiri” sussurrato con voce angelica al malcapitato Aoyama mette realmente i brividi…), Audition, a una lettura più profonda (bisogna prestare grande attenzione ai particolari, perchè questo film ha una struttura molto complessa), è la storia di un uomo perbene e in fondo dai sentimenti sinceri ma ancora condizionato dalla “visione” della donna come presenza docile e rassicurante (quando non mero oggetto sessuale) tipica della cultura del Sol Levante (“Dove sono le ragazze di una volta? Il Giappone è finito”, riflette col suo migliore amico mentre osservano delle giovani sguaiate al tavolo di un bar).
All’inizio Asami sembra incarnare in pieno questo stereotipo, ma nel momento in cui mette letteralmente a nudo le proprie ferite e accetta di impegnarsi a patto di un giuramento di fedeltà che implica soltanto il lasciarsi finalmente alle spalle abusi e umiliazioni – ossia lo “contesta”, mostrando di avere anch’essa delle legittime esigenze ed aspettative – ad Aoyama “crolla” quell’immagine idealizzata che aveva creato nella sua testa e si ritrova come scisso: da una parte è preda dei sensi di colpa per il suo comportamento (in fondo l’ha scelta alla stregua di un nuovo modello di automobile), dall’altra però è spaventato, roso dal dubbio, comincia a identificarla come “femmina castrante” sino a prefigurare scenari torbidi e ad attribuirle pulsioni sempre più abnormi e distruttive (in contrapposizione al “tipo ideale” rappresentato ancora dalla moglie morta, la quale difatti nel suo subconscio lo mette in guardia dall’intraprendere questa nuova relazione); Aoyama è un uomo emotivamente “mutilato” e “pietrificato” (in quel sacco – al centro, contestualmente allo squillo di un telefono e al sorriso diabolico di Asami, della sequenza più straordinaria e realmente inquietante di tutta la pellicola – non c’è forse l’antropomorfizzazione del suo stato interiore? E cos’altro rappresenta, se non questa condizione, la “paralisi” finale alla mercè di quella che ha immaginato come sua aguzzina?): se una vendetta sta subendo, insomma, è unicamente quella che si è autoinflitto rimanendo legato ai propri pregiudizi; non gli resta altro da fare che risvegliarsi da questo “incubo” e vincere la battaglia contro se stesso – magari con l’aiuto di colui che ama ed ascolta più di tutti, ovvero il figlio – per rinascere come persona migliore e in grado di specchiarsi nella controparte; ma il futuro, e vale per ognuno di noi, resta tutto da scrivere, perciò Takashi Miike lo lascia volutamente in sospeso…
Vista sotto questa luce Audition è, se possibile, un’opera ancora più audace e memorabile.