MANK

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GENERE:        drammatico, biopic, commedia

ANNO:             2020

PAESE:            USA

DURATA:         131 minuti

REGIA:            David Fincher

CAST:             Gary Oldman, Lily Collins, Amanda Seyfried, Charles Dance, Tom Burke

1940: il giovane prodigio Orson Welles, forte di un contratto con la casa di produzione RKO che gli consente di avere carta bianca su qualsiasi progetto decida di mettere in cantiere, assume Herman J. Mankiewicz (detto “Mank”) per scrivere un film incentrato sulla parabola di un tycoon dell'editoria ispirato al magnate dell'epoca William Randolph Hearst, che lo sceneggiatore aveva conosciuto e frequentato; Mankiewicz, costretto a letto dalla frattura ad una gamba in conseguenza di un incidente stradale, si mette al lavoro con l'aiuto di una dattilografa e accudito da un'infermiera tedesca; ripercorre così con la memoria un tratto cospicuo della sua esperienza all'interno degli studios hollywoodiani degli anni trenta...

Terminato il compito di demiurgo della serie cult Mindhunter, David Fincher torna al lungometraggio con un progetto che teneva nel cassetto sin dai primi anni novanta; Mank è il film nel quale più di ogni altro il regista di Denver riflette, con evidenti suggestioni autobiografiche, sulla figura dell’uomo e dell’artista all’interno di un’industria complessa e costantemente in evoluzione come quella del cinema: se infatti, da una parte, la pellicola è un sentito tributo al padre Jack, giornalista e sceneggiatore scomparso nel 2003 ed autore dello script, dall’altra vuole rappresentare un risarcimento nei confronti di chi ha contribuito alla leggenda della settima arte da posizioni magari scomode o borderline, e per questo è stato omesso dal grande racconto ufficiale (in questo senso Mank sta a David Fincher come C’Era Una Volta A Hollywood a Quentin Tarantino e, se vogliamo, Ed Wood a Tim Burton).


L’operazione è oltremodo raffinata poiché si sviluppa da un’intuizione prettamente visiva, ossia quella di riprodurre il “taglio” delle grandi pellicole anni trenta e quaranta (partendo naturalmente da Citizen Kane) combinandolo con elementi di regia e di montaggio più contemporanei: ecco allora una struttura frammentata composta da inquadrature chirurgiche e barocche esaltate dallo splendido bianco e nero di Erik Messerschmidt, con tanto di “bruciature di sigaretta” a fare capolino qua e là in modo quasi subliminale (idea con la quale il regista già aveva “giocato” in Fight Club), e i flashback aperti da una didascalia battuta a macchina alla maniera dei copioni, mentre i sodali Reznor e Ross scandiscono il ritmo a tempo di swing.

Citizen Kane dunque, che a conti fatti si rivela il più classico dei MacGuffin: è chiaro che Fincher padre, quasi per una sorta di solidarietà tra uomini di scrittura, sta maggiormente dalla parte di Mank e il figlio tende ad assecondarlo, anche se da regista il buon David non può ignorare la carica dirompente con la quale Orson mise in scena quello script, e ne omaggia con deferenza lo stile; ma la questione viene liquidata in poche battute, mostrando due uomini preceduti dalle loro pessime reputazioni (Mank di “mina vagante” dedita alla bottiglia, Welles di “fenomeno” arrogante e dispotico – Fincher riserva a quest’ultimo un’entrata in scena quasi metafisica… – ) che preferiscono annusarsi da lontano (li vediamo interagire praticamente solo al telefono, e quando si incontrano di persona naturalmente litigano…) per risolvere poi la cosa in uno sberleffo reciproco (si veda il finale).

Due uomini però che – al di là di una diatriba anche molto enfatizzata a posteriori da riletture critiche piuttosto forzate e parziali – in fondo si stimavano, condividendo una forte disillusione nei confronti del loro ambiente (disse Welles a Peter Bogdanovich parlando di come all’epoca gli sceneggiatori venissero sfruttati dalle case di produzione: “Nessuno era più amareggiato, più deluso e più divertente di Mank”).

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Ecco, il film parte proprio da qui, per cercare di venire a capo delle ragioni di quell’amarezza che si è poi “dochisciottescamente” riverberata in uno dei copioni più importanti della storia del cinema (se Mank pretende da Welles che il suo nome compaia nei credits è perchè in quel pacco di fogli c’è, in fondo, una parte importante della sua vita); e difatti ben presto “scarta” di lato e cambia prospettiva, calandoci dentro una sorta di auto-analisi in punta di un’agrodolce ironia ma senza catarsi (la morale è che puoi ritrovarti con un Oscar in mano e rimanere sostanzialmente un perdente…).

Sono anni consumati tra la messa a frutto di un talento cristallino, i demoni interiori (la smodata inclinazione per l’alcol e le scommesse di ogni tipo) e un senso di attrazione-repulsione verso quell’establishment che procura agi e privilegi ma chiede in cambio un pezzo di anima.


Il Mank dei Fincher, rielaborato con varie licenze rispetto a quello reale (ad esempio per quanto riguarda l’improbabile sostegno politico a Sinclair) è un “grillo parlante” arguto ma portato all’autolesionismo, un giovane-vecchio (difatti viene interpretato credibilmente da un attore che ha vent’anni più di lui, un Gary Oldman in stato di grazia) sempre a un passo dall’essere “fuori sincrono” eppure di casa nei salotti che contano ad Hollywood grazie alle sue doti affabulatorie (e non, si badi bene, per le sue capacità professionali, che pure erano indubbie): eccola la trappola per topi dalla quale non può (e in fondo non vuole, perchè ha, appunto, anche i suoi vantaggi) uscire, il confine sottile tra mantenere l’integrità di uomo e di intellettuale e scivolare invece irrimediabilmente nei panni del buffone di corte…


All’interno di questo falso biopic, che è in realtà la rappresentazione di un’epoca quasi in chiave fantastica, David Fincher sviscera di nuovo le ossessioni cardine di molte delle sue opere: la natura alienante del capitalismo, e, conseguentemente, quella infantile e sociopatica degli uomini di potere (salta agli occhi il parallelismo tra William Randolph Hearst e Mark Zuckerberg, con The Social Network che assume sempre di più i connotati del Quarto Potere degli anni duemila), nonchè la manipolazione mediatica dell’opinione pubblica – dalla quale il cinema (fabbrica dei sogni, ma anche degli incubi…) non è certo esente, anzi – esplicitata dalla subdola campagna messa in piedi dalla MGM ai danni dello scrittore Upton Sinclair (“Lei può convincere il mondo intero che King Kong è alto dieci piani e che Mary Pickford è vergine a quarant’anni, e non può convincere elettori alla fame che un socialista voltagabbana è una minaccia per la California?”, dice provocatoriamente Mank a un viscido Irving G. Thalberg), avversario del repubblicano Merriam nella corsa a governatore della California del 1934 (ai tempi gli studios sostenevano compatti il Gop come ora fanno con i Dem).

Ed ecco anche tutto un gioco cinefilo (prestando attenzione ai dialoghi – di una qualità superlativa se parametrata alla media dei film odierni – e ai nomi dei personaggi e dei film citati, si trovano delle chicche notevoli…) che se da un lato rende Mank avvincente per chi conosce o voglia approfondire la storia di quegli anni e le notevoli similitudini con ciò che stiamo vivendo oggigiorno (come la Grande Depressione, che spinge il boss Louis B. Mayer, con una patetica recita in palcoscenico, a chiedere ai dipendenti dello studio di tagliarsi lo stipendio – sequenza strepitosa nel descrivere come le crisi vengano sempre scaricate sulle spalle dei più deboli -, porterà al “nuovo intrattenimento” così l’attuale situazione favorisce le piattaforme streaming a scapito delle sale cinematografiche – non dimentichiamo che anche Mank è un prodotto targato Netflix… – ) dall’altro forse ne limita la fruizione e la comprensione ad un pubblico non così ampio.


Ed è un peccato, perchè Mank è cinema con la c maiuscola (col rammarico di non poterne godere sul grande schermo, ma tant’è) e la conferma di uno dei più grandi autori americani degli ultimi venticinque anni.

Anton Chigurh

Mi chiamo Mattia, alias Anton Chigurh, classe 1975, ho fatto studi classici e sono orgogliosamente spezzino; cosa chiedo ad un film o ad una serie tv? Di farmi riflettere, di inquietarmi, di lasciarmi a bocca aperta, di divertirmi... Per sapere dove trovo tutto questo, leggete le mie recensioni su I Cinenauti!