Si dice che a volte la realtà supera la fantasia e la vicenda raccontata in questo bel documentario di Alex Infascelli (filmaker poliedrico che ha spaziato tra la regia di videoclip musicali per importanti artisti italiani ed internazionali - citiamo tra gli altri Franco Battiato, Elisa, Daniele Silvestri, Ligabue, i Cocteau Twins -, quella cinematografica con alcuni titoli di culto come Almost Blue e Il Siero Della Vanità, produzioni televisive come la miniserie del 2009 Nel Nome Del Male e appunto documentari - S Is For Stanley, storia dell'autista personale di Stanley Kubrick Emilio D'Alessandro, e Mi Chiamo Francesco Totti, incentrato sulla carriera del capitano della Roma), basato sul libro Il Marine-Storia Di Raffaele Minichiello scritto da Pierluigi Vercesi raccogliendo le testimonianze dello stesso protagonista, sta qui a dimostrarlo.
Infascelli lascia a Minichiello in persona, oggi settantaquattrenne ancora in ottima forma, il compito di condurci attraverso le tappe di un’esistenza a dir poco rocambolesca, integrandone i ricordi con filmati recuperati sia dalle tv dell’epoca che dall’archivio di famiglia; ecco allora l’infanzia in un poverissimo paese dell’Irpinia, sino alla svolta decisiva con la decisione della famiglia, anche in seguito al devastante terremoto che colpì quelle zone nel 1962, di emigrare a Seattle in cerca di fortuna; l’impatto con gli Stati Uniti non è dei migliori, ma il giovane Raffaele risponde ai pregiudizi con la capacità di adattamento e la caparbietà che lo contraddistinguono: sono un americano come voi, e per dimostrarvelo mi arruolo nei Marines e vado in Vietnam, a testa alta, con spavalderia (un commilitone ricorda che c’era l’usanza di incidere qualcosa sull’elmetto: Minichiello, a differenza di tutti gli altri che scrivevano il nome della madre o della fidanzata, vergò un perentorio “Kill me if you can” rivolto ai nemici – frase opportunamente ripresa per titolo del documentario -) e coraggio (trarrà in salvo alcuni compagni da un’imboscata meritandosi un encomio)!
La guerra però ti entra in testa come un tarlo, e inoltre i reduci non sono nemmeno così ben visti; lo Stato gli nega il trasferimento in Italia e rifiuta di corrispondergli una somma dovuta, così Minichiello decide di farla pagare al mondo intero; acquista una carabina e con uno stratagemma riesce ad imbarcarsi su un volo Los Angeles-San Francisco, realizzando l’impresa che lo consegna alla leggenda, ovverosia il dirottamento più lungo della storia dell’aviazione civile: Denver, New York, Bangor (Maine), Shannon (Irlanda), Roma sono le tappe di questo viaggio pazzesco, nel quale Raffaele trova una sorta di “alleata” nella hostess di bordo afroamericana Tracey Coleman; la ragazza, stabilendo con lui un’empatia immediata, probabilmente a causa del comune vissuto di discriminazioni, lo convince a rilasciare gli altri passeggeri e il personale di bordo; una volta giunto in Italia l’uomo chiede un auto e un funzionario di polizia da portare con sé come ostaggio: ottenuto ciò si dà alla fuga in piena campagna ma viene presto arrestato; gli Stati Uniti chiedono la sua estradizione che verrà però sempre negata: processato nella Capitale, Minichiello sconterà appena
diciotto mesi di carcere.
Gìà questo basterebbe per scrivere un romanzo o concepire una serie televisiva, ma Raffaele vivrà almeno altre due o tre vite dense di avvenimenti…
Dopo un periodo di sbandamento e qualche scelta discutibile (tra cui un servizio per Playmen…), trova finalmente la serenità agognata al fianco di Cinzia, la quale gli dà il figlio Cristiano: sono i cosiddetti “anni di piombo”, e Minichiello li trascorre tra l’accudimento della famiglia, il lavoro di consegne per il bar del padre della compagna e poi in proprio con un distributore di carburante, gli hobby particolari (sviluppa una vera ossessione per gli elicotteri, arrivando a costruirne uno con le sue mani) e le strane frequentazioni con personaggi del mondo diplomatico e militare di stanza a Roma (il figlio Cristiano racconta al proposito aneddoti piuttosto inquietanti…).
Sino al 1985, quando accade una tragedia: Cinzia è in ospedale per partorire il loro secondo figlio, ma a causa di negligenze varie la donna e il bambino muoiono in sala travaglio; Minichiello rimane talmente sconvolto da questa vicenda di “malasanità” da progettare un “colpo di testa” ancora più clamoroso del precedente: medita infatti di attaccare un convegno di medici per sterminarne il maggior numero possibile (sempre Cristiano ricorda esercitazioni casalinghe di tiro a segno nelle quali il padre lo affinava all’uso delle armi…).
Gli insani propositi vengono però messi in soffitta nel modo più imprevedibile: grazie all’intercessione di un amico, infatti, Raffaele si avvicina alla fede, mettendo in atto una vera e propria conversione e cambiando radicalmente la propria visione dell’esistenza; è proprio ad un raduno evangelico che conosce la sua seconda moglie, Teresa, la quale, dopo avergli dato altri due figli, morirà anch’essa nei primi anni duemila a causa di un tumore, mentre dagli Stati Uniti arriva il via libera alla tanto attesa riabilitazione che consente a Minichiello di rimettere piede in quella che considera a tutti gli effetti la sua seconda patria.
Chi è dunque Raffaele Minichiello? Kill Me If You Can non dipana del tutto il mistero di quest’uomo dei “due mondi” (già fonte di ispirazione nientemeno che per il personaggio del reduce John Rambo, creato e portato al successo planetario da Sylvester Stallone) e dalle molte facce, alcune sicuramente contraddittorie se non oscure (Vercesi adombra la possibilità che Minichiello, una volta uscito di prigione, sia stato in qualche modo cooptato dai servizi segreti americani; d’altra parte lo stesso Raffaele ha in un certo senso alimentato questa lettura: interrogato infatti sulla possibilità, prevista dalla legge statunitense, di far desecretare il dossier sulla sua persona presente negli archivi della CIA, si è limitato a rispondere con un “Ma sei matto?” seguito da un laconico sorriso che non ammetteva ulteriori repliche…), ma riaccende comunque i riflettori, attraverso un montaggio agile ed una narrazione asciutta, su una storia decisamente unica e dimenticata.