Negli ultimi tempi sono stati realizzati parecchi film più o meno riusciti riguardanti il tennis e vari
suoi protagonisti (ricordiamo, tra i principali: La Battaglia Dei Sessi con Steve Carell ed Emma
Stone, incentrato sul match tra il veterano Bobby Riggs e Billie Jean King tenutosi il 20 settembre
del 1973 e così denominato; Borg McEnroe, sul rapporto tra i due più popolari giocatori a cavallo
tra i settanta e gli ottanta; Il Quinto Set, parabola su una ex giovane promessa del tennis francese
che a 37 anni vuole giocare a tutti i costi il Roland Garros per l'ultima volta; Una Famiglia
Vincente, con protagonista Will Smith, sull'epopea delle sorelle Williams e del padre Richard),
andando per la verità a colmare una lacuna annosa inerente il rapporto tra una delle discipline
sportive più popolari e la settima arte.
Eppure, a guardarli bene, sfugge qualcosa: sono rappresentazioni sempre un po' stereotipate, quando
non portatrici di una “moralina” edificante come mainstream comanda, e quindi fondamentalmente
superficiali; per cogliere appieno la vera essenza di un gioco così affascinante e sfaccettato,
dobbiamo allora forse rivolgerci, paradossalmente, a chi di tennis ha sì parlato, ma per parlare di
altro:
silenzio sugli spalti, inizia la partita...
15-0 LO SPORT DEL DIAVOLO
“Odio il tennis, lo odio con tutto il cuore, eppure continuo a giocare, continuo a palleggiare tutta la mattina, tutto il pomeriggio perchè non ho scelta. Continuo a implorarmi di smettere e continuo a giocare, e questo divario, questo conflitto, tra ciò che voglio e ciò che effettivamente faccio mi appare l'essenza della mia vita...”
Andrè Agassi, Open
“Lo sport del diavolo”: basterebbe questa folgorante definizione per capire quanto una partita di tennis possa racchiudere al suo interno la grazia e la ferocia, il dramma e l’estasi, la cerebralità e l’istinto, il trionfo e la rovina – quei due impostori che vanno trattati allo stesso modo, secondo un celeberrimo passo della poesia “If” di Rudyard Kipling che campeggia sulla porta d’ingresso del Centre Court di Wimbledon -: perchè il tennis è sfida contro un avversario ma innanzitutto contro sé stessi, come spiega in modo cristallino l’epigrafe tratta dalla biografia best-seller di uno dei suoi campioni più conosciuti e umanamente complessi; è un processo che passa non solo attraverso il miglioramento costante dei fondamentali tecnici e della parte atletica (divenuta, con l’evoluzione odierna, un aspetto fondamentale tanto da rasentare spesso lo stoicismo, tra lunghezza e intensità delle partite e frequenza degli infortuni), ma soprattutto da un inesausto dialogo interiore a più voci, nel quale la brama del competere e quella del primeggiare si misurano con tutti i dubbi e le fragilità che ognuno di noi conserva nel proprio intimo; sport solitario e solipsistico, il tennis, fatto di movimenti meccanici da ripetere ossessivamente con concentrazione e ritualità quasi zen, nonchè di un assunto di fondo spietatamente darwinista: e nell’attesa, come in una tragedia greca, che il fato si compia, quando qualcuno magari si appresta a servire per salvare una palla-break decisiva al quinto set, si avvertono una tensione e una solennità difficilmente riscontrabili in altri ambiti.
Un mostro sacro come Alfred Hitchckock ha colto alla perfezione questo aspetto “thrilling” nel suo capolavoro del 1951 L’Altro Uomo, Delitto Per Delitto (in originale Strangers On A Train): la storia (tratta da Patricia Highsmith e rielaborata con qualche sostanziale cambiamento in una sceneggiatura alla quale inizialmente collaborò nientemeno che il re dell’hard boiled Raymond Chandler) è nota: due sconosciuti, il tennista professionista Guy Haines (Farley Granger) e l’eccentrico possidente Bruno Anthony (Robert Walker) si incontrano su un treno diretto a New York; Anthony, con fare affabulatorio, racconta delle sue forti incomprensioni con il padre e mostra di conoscere molto bene la delicata situazione familiare di Haines, impegnato in un difficile divorzio; poi, tra il serio e il faceto, gli propone uno scambio di omicidi in modo da risolvere definitivamente i loro problemi personali.
La freddezza e la metodicità quasi matematiche sul campo alle quali fa da contraltare un privato turbolento, messo in piazza da un apparato mediatico già allora piuttosto invadente: eccoli lo yin e lo yang, sublimati da un segmento finale di rara potenza nel quale, grazie ad un prodigioso montaggio alternato, il maestro inglese architetta una progressione drammaturgica inesorabile, praticamente in tempo reale, scandendola col susseguirsi del punteggio di un match che Haines è costretto a giocare a più livelli, dovendo in sostanza impedire il prevalere della propria “metà” oscura.
15-15 I GESTI BIANCHI
Il tennis in purezza e idealità è lo sport dei “gesti bianchi” – secondo la memorabile definizione di Gianni Clerici, uno dei suoi più grandi storici e cantori, la quale ingloba anche gli abiti candidi di sobria e impareggiabile eleganza, aspetto questo poi irrimediabilmente corrotto dalla modernità -: sono i movimenti leggiadri ed eterei della Divina Suzanne Lenglen, campionessa glamour degli
anni venti, che possiamo ammirare, nei pochi fotogrammi ed immagini rimaste, mentre sembra quasi fluttuare nell’aria, e, in generale, di chiunque sia riuscito, “portando” i propri colpi come se la racchetta fosse una propaggine del braccio, a trasmettere quel misto inspiegabile di armonia, potenza, coordinazione, e al contempo anche un sottile potere seduttivo.
È stato Michelangelo Antonioni, nella ormai mitica partita immaginaria dei mimi che conclude Blow Up, a restituire questa purezza quasi metafisica, evocando lo straniamento che ci coglie quando vediamo all’opera certi fuoriclasse, i quali, per dirla con Carmelo Bene – grande appassionato in particolare dello svedese Stefan Edberg, sublime interprete del serve and volley -, “non giocano ma sono giocati”.
E ancora bisogna andare a Lolita di Vladimir Nabokov, romanzo chiave del ‘900, dove il tennis ritorna spesso simbolicamente tra le pieghe di un’educazione sentimentale ed erotica che è poi in concreto ricerca di affermazione delle proprie potenzialità; Stanley Kubrick, in una trasposizione che non a caso non piacque allo scrittore russo, omise questo aspetto giustificandosi col fatto di non conoscere sufficientemente il gioco; sarà Adrian Lyne nella sua versione del 1997, molto più interessante di quanto non si dica in giro, a colmare parzialmente la lacuna, filmando la ninfetta sul campo col suo pigmalione in uno “scambio” di capricci e di sottintesi.
30-15 ARISTOCRAZIA
Il tennis nasce come gioco concettualmente aristocratico, intendendo con questo non solo il fatto che per molto tempo la sua pratica è stata diffusa quasi esclusivamente all’interno di tale classe sociale, ma proprio per una serie di princìpi ispiratori “alti” andati a formare un codice simil- cavalleresco rimasto abbastanza intatto, nonostante tutto, sino ai giorni nostri; in questo senso il campo si configura come una sorta di “bolla” entro la quale il tempo e lo spazio assumono cadenze ed angolazioni arcane, e una partita diventa la somma di mille micro-storie, anche quando la Storia con la maiuscola bussa alla porta: ecco ad esempio il “terribile splendore” di una sfida tra il barone Gottfried Von Cramm (allenato da Bill Tilden, il più grande tennista degli anni venti ed uno dei più influenti della storia, il quale, pur essendo americano, all’epoca era vicino alla squadra tedesca) e lo statunitense Donald Budge, finale interzone di Coppa Davis del 1937 giocata sui prati di Wimbledon e colma di implicazioni sia umane che geopolitiche (uno, segretamente omosessuale, era tenuto d’occhio dal Reich, ma ad una certa “distanza” perchè con le sue vittorie dava lustro alla propaganda; il Fuhrer in persona, poco prima di scendere in campo, lo raggiunse telefonicamente per “incoraggiarlo”…; l’altro, numero uno mondiale e capace un anno dopo di completare il Grande Slam – lui e l’australiano Rod Laver, quest’ultimo per ben due volte, sono tuttora gli unici uomini ad essere riusciti nell’impresa -, era sorretto da un afflato patriottico che non gli impedì comunque in seguito di solidarizzare con l’avversario di quel giorno e di battersi per i suoi diritti negati), raccontata in modo magistrale da Marshall Jon Fisher.
Tornando a cinema e letteratura, il rimando più naturale va rintracciato nel Giardino Dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, romanzo del 1962 poi portato in pellicola da Vittorio De Sica nel 1970, dove il rettangolo di gioco diventa una sorta di zona franca, un luogo dell’anima prima ancora che fisico, capace di eternare i momenti spensierati di questi ebrei ferraresi lasciando fuori l’orrore delle leggi razziali.
30-30 OPEN
Il ’68 del tennis coincide con l’inizio di quella che è stata chiamata l’Era Open, ossia l’apertura delle competizioni anche ai professionisti, andando a sanare una contraddizione che si trascinava da tempo e facendo così entrare di fatto il gioco nella contemporaneità: in pochi anni vengono a costituirsi un unico “tour” di tornei in giro per il mondo e addirittura un sindacato dei giocatori, in una corrispondenza con istanze sociali sempre più sentite a tutti i livelli in quel periodo.
Fenomeni in rapida espansione come la tv e la pubblicità cominciano ad interessarsene, amplificando le gesta di campioni che diventano, nell’immaginario collettivo, alla stregua di vere e proprie rock-star (il biondo scandinavo Bjorn Borg, dal look quasi “cristologico”, e il “ribelle” newyorkese John McEnroe, sorta di Beatles e Rolling Stones della racchetta, tra la metà degli anni settanta e i primi anni ottanta danno vita ad una rivalità che li certifica come le prime due vere e proprie icone globali di questa disciplina); la conseguenza più ovvia di tutto questo è che il tennis esce dai circoli esclusivi per diventare uno sport di massa, con un vertiginoso aumento del numero dei praticanti favorito anche dall’edificazione di campi pubblici o affittabili a prezzi contenuti.
La partita diviene allora un rito settimanale anche per milioni di travet di mezza età sovente goffi e sovrappeso che in orari improbabili scimmiottano i numeri uno nelle marche di abbigliamento e racchette; sono Luciano Salce e Paolo Villaggio, attraverso la distorsione prismatica del grottesco, a dare un quadro impagabile di questa tendenza in quel capolavoro di satira sociologica che è il primo Fantozzi del 1975, schierando il protagonista ed il collega Filini, con tutta la loro tragicomica inadeguatezza, su un campo immerso in una nebbia da tregenda…
“Allora ragioniere che fa, batti?!”
“Ma, mi dà del tu?”
“No, no, dicevo: batti lei?”
“Ah congiuntivo!”
40-30 MATCH POINT
Due metà campo divise da una rete, la pallina che colpisce il nastro e deve decidere da che parte andare, e in quell’attimo il mondo si ferma (è successo davvero anche ad altissimo livello:ricordiamo ad esempio il punto risolutivo di una famosa finale del Masters al Madison Square Garden di New York tra il ceco naturalizzato americano Ivan Lendl e il tedesco Boris Becker, andato a favore di quest’ultimo nel tie-break del quinto set): insomma, non c’è sport che come il tennis possa rappresentare la metafora di quanto la nostra esistenza sia subordinata, nel bene e nel male, ad un destino spesso imperscrutabile e beffardo, e non c’è cineasta che nella sua cinquantennale carriera abbia raccontato meglio di Woody Allen questi intrecci del caso; la sintesi, mediata da Delitto E Castigo di Fëdor Dostoevskij, avviene nel 2005 con Match Point, noir ambientato nella City (l’impianto di partenza è il classico “triangolo”: lui – ex professionista ed ora istruttore di tennis -, lei – rampolla di famiglia agiata dell’alta finanza -, l’altra – aspirante attricetta ed ex fidanzata del fratello di lei -) dove passione, bruciante volontà di scalata sociale e gestione dei sensi di colpa passano attraverso le bizzarrie della fortuna: quanto può essere diabolica la vita, quanto può esserlo una partita di tennis?
Ecco, senza accorgercene siamo tornati al punto di partenza…