DOGTOOTH (KYNODONTAS)

DOGTOOTH - KYNODONTAS

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GENERE:         drammatico

ANNO:             2009

PAESE:            Grecia

DURATA:         94 minuti

REGIA:            Yorgos Lanthimos

CAST:              Christos Stergioglou, Michele Valley, Aggeliki Papoulia, Mary Tsoni, Hristos Passalis, Anna Kalaitzidou

Dogtooth - Kynodontas. Una famiglia composta dai genitori di mezza età e da tre figli, due femmine e un maschio, vive in una grande villa isolata con giardino e piscina alla periferia di Atene; pur trattandosi apparentemente di un normale contesto altoborghese, pian piano veniamo a scoprire un'incredibile verità: il padre infatti obbliga i ragazzi a non uscire mai all'esterno evocando terribili pericoli immaginari...

…i tre fratelli – ai quali è stato insegnato un vocabolario dove ogni parola ha perso il proprio reale significato per acquistarne un altro totalmente arbitrario – passano così il loro tempo a eseguire degli strani giochi “survivalisti”, con la promessa di poter lasciare l’edificio una volta raggiunta la piena maturità, ossia quando uno dei loro canini cadrà. Un giorno l’uomo, che lavora come manager e perciò è l’unico a potersi muovere liberamente, ingaggia Christina, un’addetta alla sicurezza della sua azienda, perchè abbia rapporti carnali col figlio; la conduce così bendata nella loro abitazione, ma le conseguenze di questa scelta risulteranno imprevedibili.


L’ateniese Yorgos Lanthimos, classe 1973, è sicuramente uno dei registi più originali ed importanti partoriti dal cinema europeo degli ultimi quindici anni; grazie anche alla collaborazione del geniale sceneggiatore Efthymis Filippou ha fornito infatti molte chiavi di lettura del nostro presente attraverso visioni metaforiche stranianti, cupe e sottilmente distopiche. Messosi in luce già con l’opera prima Kinetta – ostico film sull’incomunicabilità e il vuoto esistenziale che guardava in egual misura a maestri quali Michelangelo Antonioni e Marco Ferreri – , è però con questo Kynodontas che conquista definitivamente la critica e il pubblico (premiato a Cannes e candidato all’Oscar come miglior film straniero), i quali riconoscono in lui le stimmate del grande autore.

L’idea del film nasce, così racconta Yorgos Lanthimos, dalla reazione piuttosto stizzita di un amico, prossimo sposo, ad una sua battuta che criticava l’istituzione matrimoniale; se il punto di partenza è dunque una disamina di quanto la protezione a tutti i costi del nucleo familiare possa, in potenza, portare a situazioni di disagio quando non a comportamenti aberranti, il discorso approda ben presto ad una precisa rappresentazione dei meccanismi sottesi ad ogni sistema totalitario: in questi casi lo Stato (o qualsiasi organismo che ne fa le veci) si autorappresenta come un padre buono e forte che opera esclusivamente nell’interesse dei propri cittadini, ridotti così ad infanti incapaci di discernimento ed autodeterminazione, sin nella sfera più intima (si veda tutto il “teatrino” riguardante la vita sessuale dei protagonisti…), e perciò privi di identità (i personaggi del film non hanno nome).

Non è più nemmeno necessaria la coercizione violenta (e qui risiede la grande attualità dell’assunto) poiché il controllo viene esercitato attraverso un lavaggio del cervello che si articola da una parte instillando la paura di nemici interni ed esterni completamente fittizi (i gatti mangiatori di uomini, gli aerei), dall’altra con un’orwelliana e grottesca corruzione del linguaggio veicolata sia attraverso l’educazione parentale e scolastica sia attraverso i media (miti e riti del mainstream, soprattutto statunitense, vengono rielaborati e introiettati come parte del proprio vissuto personale – chiara allusione alla colonizzazione culturale, che fa il paio con quella politica ed economica, della quale parla ad esempio anche un altro grande cineasta contemporaneo come il cileno Pablo Larrain nel bellissimo Tony Manero – ).

L’“ordine” si manifesta allora come una pura distorsione mentale, una caverna di Platone dove gli schiavi vengono educati a rispettare ed amare le proprie catene – divenendo veri e propri inconsapevoli “cani da guardia” al servizio del potere – all’interno di una rappresentazione tragica (tutto il cinema di Lanthimos non può che essere impregnato di rimandi alla cultura greca classica) dove sono chiamati a competere tra loro con il miraggio di qualche miglioramento futuro della propria condizione (cosa che naturalmente non si verificherà mai).

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Ma il cinema (o l’arte in generale) può e deve invece essere un mezzo di emancipazione (la visione clandestina delle videocassette portate da Christina insinua un “tarlo” che in seguito dà il là alla fuga della figlia maggiore): però, ammonisce Yorgos Lanthimos nell’enigmatico finale, non c’è vera libertà senza consapevolezza, e un “ribellismo” sterile può portare magari ad avere l’illusione di “uscire” rimanendo invece ugualmente prigionieri.

Il regista ateniese, sulle orme del cinema “sadico”, algido e disturbante (ma non privo di una certa ironia di fondo) di autori come Michael Haneke e Ulrich Seidl (ma, soprattutto nei suoi ultimi lavori, si avverte un taglio spiccatamente Kubrickiano) mette in scena il suo apologo ricorrendo ad uno stile che alterna camera a mano a piani sequenza e inquadrature fisse, immergendo il tutto, a rappresentare una dissonanza cognitiva imperante, in un nitore che a tratti deborda nel fuori fuoco; perfetto in questo senso anche il cast, dove spiccano, nei panni delle due sorelle, la sua attrice feticcio Angeliki Papoulia e Mary Tsoni, purtroppo prematuramente scomparsa ad appena trent’anni nel 2017.

Se di debiti si deve parlare, non possiamo però esimerci dal menzionare un altro mostro sacro come Luis Bunuel: si dà il caso, infatti, che Kynodontas presenti numerose analogie con una pellicola del 1972 di Arturo Ripstein (già assistente del maestro surrealista spagnolo) intitolata El Castillo De La Pureza, tanto da far proferire accuse di plagio al regista messicano.

Ma Kynodontas, a ben guardare, discende anche dal Pasolini di Teorema (Christina è l’elemento perturbante venuto dall’esterno a smascherare la vacuità di un assetto sociale; stesso ruolo deflagrante avrà il Martin de Il Sacrificio Del Cervo Sacro, libero adattamento dell’Ifigenia In Aulide di Euripide) ma soprattutto da quello di Salò, del quale rappresenta una versione più “asettica” ma non meno concettualmente agghiacciante.

Yorgos Lanthimos – pur aprendosi gradualmente a produzioni in lingua inglese con divi di fama internazionale – proseguirà in futuro sulla stessa falsariga girando film sempre sorprendenti e notevoli (Alps, The Lobster, Il Sacrificio Del Cervo Sacro, La Favorita), ma forse senza riuscire a far coincidere così perfettamente la forma e il contenuto come in questa occasione.