Anatomia di un sottogenere: il thriller “lolitesco”

Tra le pieghe del cosiddetto “thriller all'italiana” si può individuare una sorta di piccolo sottogenere caratterizzato dal fatto che le catene omicidiarie con svelamento finale del colpevole (o dei colpevoli) non scaturiscono da traumi più o meno infantili o da questioni di mero carattere economico (soprattutto eredità contese) ma riguardano torbide vicende di adolescenti minorenni che finiscono in giri di prostituzione e ricatti nei quali solitamente sono implicati degli insospettabili pezzi grossi.

Figura cardine di questo filone, che potremmo definire “lolitesco”, è senza dubbio il cineasta milanese Massimo Dallamano, nato come direttore della fotografia (nientemeno che per Sergio Leone nei suoi primi due capolavori Per Un Pugno Di Dollari e Per Qualche Dollaro In Più) e poi a sua volta passato alla regia con una serie di film piuttosto variegati ed interessanti, dove ha spesso esplorato l’erotismo nei suoi molteplici aspetti (ricordiamo il censuratissimo Venere In Pelliccia del 1969 – rieditato poi con i titoli Venere Nuda e Le Malizie Di Venere -, tratto dal romanzo di Leopold von Sacher-Masoch, Il Dio Chiamato Dorian del 1970, ispirato al Ritratto Di Dorian Gray di Oscar Wilde, o il dittico Innocenza E Turbamento del 1974 e La Fine Dell’Innocenza del 1976, i quali vertono sulla complessità del desiderio femminile contrapposto ad una visione maschile oggettivante), sino a scomparire in un incidente stradale nel 1976 a soli 59 anni.

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Nel 1972 Dallamano, con la collaborazione di Bruno Di Geronimo e ispirandosi vagamente ad un romanzo di Edgar Wallace (ma, sussurrano voci di corridoio, assecondando soprattutto un’inclinazione verso le fanciulle in fiore che lo contraddistingueva anche in privato…), scrive dunque un giallo ambientato in un college femminile londinese, legando gli omicidi cruenti di alcune studentesse alla storia d’amore clandestina tra una di loro e l’aitante professore di ginnastica: Cosa Avete Fatto A Solange – questo il titolo scelto – si rivelerà non solo un lavoro atipico nell’ambito del genere, proprio per le caratteristiche di cui sopra, ma anche, in assoluto, uno dei migliori thriller del periodo.

Ad una sceneggiatura che si segnala per compattezza e verosimiglianza (mettendo in campo, per una volta, un movente credibile e concreto legato alle tragiche conseguenze di un’interruzione di gravidanza) corrisponde infatti una messa in scena di notevole contenuto formale: Dallamano era tutt’altro che un regista dozzinale e qui, grazie anche alla splendida fotografia di Aristide Massaccesi (alias Joe D’Amato) e al calibrato montaggio di Antonio Siciliano, squaderna tutto il suo talento visivo tra punti macchina audaci, grandangoli, piani sequenza e flashback di grande impatto; da un prologo di stampo argentiano (il testimone a cui sfuggono particolari decisivi di ciò che ha visto o che ha creduto di vedere) il film va poi in una direzione tutta sua, nella quale sia l’italianità del protagonista (un fascinoso Fabio Testi) contrapposta al contesto straniero (moglie tedesca e città anglosassone) che l’indubbia eleganza, quasi venata di un tocco romantico, con la quale il regista ne gestisce la morbosità di fondo (il terribile modus operandi dell’assassino consiste nell’infilare un affilatissimo coltello nella vagina delle povere vittime…), pur non rinunciando a mostrare, anche in forme inusuali (se vogliamo, il momento più “forte” si ha infatti quando l’ispettore illustra al padre di una delle ragazze uccise la radiografia dello scempio toccato alla figlia…), contribuiscono a creare un “oggetto” conturbante e originale.

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Visto il buon riscontro, Dallamano un paio di anni dopo rilancia con una pellicola apparentemente più convenzionale ma anch’essa, a ben vedere, dai tratti piuttosto peculiari; a differenza del lavoro precedente, nel quale il giro di sesso adolescenziale era legato ad un anelito contestatario ed emancipatorio tipico del periodo più che a una vera e propria struttura organizzata, in La Polizia Chiede Aiuto si affaccia l’argomento delle baby squillo reclutate nelle scuole da individui spregevoli (qui ad esempio il fotografo Bruno Paglia interpretato da Franco Fabrizi, non nuovo a caratterizzazioni del genere) a vantaggio di clienti vip.

Il film, tratto da un soggetto di Ettore Sanzò e che prende le mosse dall’apparente suicidio di una quindicenne (a impersonarne il padre troviamo Farley Granger, venuto a chiudere la carriera in Italia dopo i fasti hitchcockiani) le cui indagini sono affidate a due commissari dal carattere opposto (il Valentini di Mario Adorf è l’uomo tutto di un pezzo destinato a vedersi crollare sotto gli occhi i propri valori familiari, mentre il Silvestri di Claudio Cassinelli è il funzionario anticonformista che si trova a lottare contro i mulini a vento), sembra in partenza un classico ibrido tra poliziottesco e giallo, ma a renderlo realmente interessante, oltre alla presenza di una donna come coordinatrice delle indagini (il sostituto procuratore Vittoria Stori, interpretata da Giovanna Ralli) e all’insolita ambientazione bresciana, sono gli squarci di violenza splatter che ne punteggiano qua e là lo sviluppo, trasportandolo dalle parti del vero e proprio slasher.

Dallamano non lesina su emoglobina a fiotti e corpi smembrati, eleggendo a simbolo di questo aspetto, con un’idea vincente di sceneggiatura, il personaggio del misterioso motociclista-killer il quale, mannaia in mano e casco sempre calato sulla testa (il suo volto si vedrà solo nel finale, una volta riverso a terra dopo essere stato freddato da una raffica di mitraglietta), si manifesta laddove c’è bisogno dei suoi sanguinari servigi (da rimarcare la sequenza nella quale stacca di netto una mano ad un malcapitato poliziotto, in un certo modo anticipatrice di quella famosissima di Tenebre nella quale è coinvolta Veronica Lario, e quella dell’agguato alla Ralli in un parcheggio sotterraneo, che ne ricorda una analoga presente in Lo Strano Vizio Della Signora Wardh di Sergio Martino).

Opera tesa e cupa (si veda il finale per nulla consolatorio), caratterizzata da un ritmo sostenuto (scandito dallo score incalzante di Stelvio Cipriani, un po’ riciclato per la verità da quello di La Polizia Sta A Guardare di Roberto Infascelli dell’anno precedente), e nella quale Dallamano, oltre a fare sfoggio della sua consueta perizia nel muovere la macchina da presa (si dimostra abile anche nell’azione pura, girando inseguimenti automobilistici che nulla hanno da invidiare ai maestri del genere), alla violenza grafica ne abbina anche una più concettuale ma non meno sottilmente disturbante (le descrizioni piuttosto crude e particolareggiate degli abusi subiti dalle ragazzine sono un discreto pugno nello stomaco), La Polizia Chiede Aiuto ha conquistato negli anni tra gli appassionati un meritato status di piccolo culto.

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L’argomento evidentemente circola nell’“aria”, così nel 1975 anche Sergio Martino ne offre la sua personale versione con Morte Sospetta Di Una Minorenne, su soggetto e sceneggiatura di Ernesto Gastaldi e del regista stesso.

Il film, che inizialmente doveva intitolarsi Milano Violenta (titolo poi utilizzato da Mario Caiano per una sua pellicola dell’anno successivo), ricalca grossomodo gli stereotipi conosciuti (verte sul solito “traffico” di adolescenti viziose) ed ha almeno una buona intuizione nella figura del protagonista, un Claudio Cassinelli “double face” (viene presentato come criminale di piccolo cabotaggio che si muove nel sottobosco della “mala” per poi rivelare, con un colpo di scena, che trattasi invece di un commissario sotto copertura chiamato Germi – chiaro omaggio al grande regista genovese, del quale ricorda un po’ anche il look e la postura -), ormai evidentemente a suo agio in questo tipo di ruoli con la sua faccia da schiaffi e l’atteggiamento tra il duro e lo scanzonato, il cui antagonista, un losco banchiere interpretato da un attore di “peso” come Massimo Girotti, è probabilmente ricalcato su personaggi all’epoca al centro delle cronache (appare infatti come una sorta di “crasi” tra Michele Sindona e l’Avvocato Agnelli…).

La pellicola però, nonostante la risaputa abilità di Martino (il quale azzecca alcune sequenze da par suo come ad esempio quella sul tetto retrattile di un cinema), sembra non sapere bene che strada prendere, risultando alla fine poco bilanciata nella commistione tra un registro “thrilling” un po’ grossolano (anche la colonna sonora, ad opera di Luciano Michelini, plagia spudoratamente quella di Profondo Rosso…) ed uno umoristico, a tratti addirittura debordante nello slapstick, piuttosto eccessivo e fuori fuoco.

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Più intrigante si rivela invece …A Tutte Le Auto Della Polizia, film uscito nella stessa estate e diretto dal già citato regista romano Mario Caiano, altro ottimo mestierante con all’attivo una carriera di tutto rispetto contraddistinta da incursioni nei generi più disparati. Scritta dagli esperti giallisti Massimo Felisatti e Fabio Pittorru basandosi sul loro romanzo Violenza A Roma, è un’opera narrativamente piuttosto coesa, che ad un classico sviluppo da poliziesco investigativo con risvolti sociologici (gli scheletri negli armadi della borghesia, le cui figlie finiscono a prostituirsi per noia, il commissario idealista solo contro tutti ecc.) unisce interessanti schegge di puro voyerismo argentiano (gli omicidi sono ottimamente coreografati, creando buone dosi di suspense grazie alle ormai classiche soggettive dell’assassino), sfruttando al meglio anche una location particolare come quella del Lago Albano nell’area dei Castelli Romani (come si usava spesso ai tempi, Caiano riutilizza la sequenza della ricerca di un cadavere con le unità cinofile già presente proprio in La Polizia Chiede Aiuto).

Va menzionato anche un cast che si può definire eterogeneo, dove tra caratteristi habituè del genere come Antonio Sabàto, Elio Zamuto, Luciana Paluzzi ecc. e presenze più curiose come quella di Bedy Moratti, spiccano i grandi Enrico Maria Salerno nei panni del commissario Carraro e Gabriele Ferzetti in quelli del professor Andrea Icardi, padre della prima vittima. Distribuita col divieto ai minori di 18 anni e “sforbiciata” ulteriormente nel tempo ai fini della trasmissione televisiva, …A Tutte Le Auto Della Polizia rimane nel complesso una pellicola solida e decisamente godibile.

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La chiusura del cerchio avviene nel 1978 con Enigma Rosso (il cui titolo riecheggia ovviamente quello del capolavoro di Dario Argento), e non può che vedere coinvolti di nuovo Dallamano e Testi: l’uno, prima della morte prematura, ha il tempo di redarre uno script sul quale metteranno poi mano, tra gli altri, anche Franco Ferrini e Peter Berling, l’altro viene scelto come protagonista interpretando stavolta la figura del commissario dai modi spicci.

Il film è una sorta di ricapitolazione di tutti i topoi di questa nicchia “pruriginosa” (il collegio, il gruppo di ragazze inseparabili invischiate in contesti pericolosi, gli ambigui lenoni che fiancheggiano i referenti altolocati, l’innocenza dei bambini corrotta dal mondo degli adulti ecc.) e, stante la scomparsa di Dallamano, viene affidato dalla produzione iberica – la pellicola è stata girata interamente in Spagna – ad Alberto Negrin, molto attivo come documentarista e in lavori per la televisione; nonostante un plot piuttosto confuso e dagli snodi sovente irrealistici, il regista nativo di Casablanca si dimostra all’altezza del compito e porta a casa un prodotto più che dignitoso, regalando almeno una sequenza in grado di far sussultare il cinefilo – quella iniziale, quando si assiste al ritrovamento sul greto di un fiume del cadavere di una ragazza avvolta in un sacco di plastica, che anticipa in modo davvero suggestivo l’incipit di Twin Peaks, la serie di David Lynch e Mark Frost che ha cambiato la storia della televisione (“She’s dead, wrapped in plastic”) -, senza dimenticare, oltre a qualche nudo di prammatica, alcuni flashback “malsani” dove si fondono la violenza sessuale e l’aborto clandestino con tanto di soggettive “ginecologiche” piuttosto ardite.

Con l’arrivo degli anni ottanta e il progressivo affermarsi della televisione commerciale finisce la stagione d’oro del thriller nostrano, e perciò anche di quello a matrice “lolitesca”, poichè molti dei registi più importanti si riciclano nella produzione di fiction e serie destinate a un pubblico generalista; oggi, al tempo di Onlyfans, non possiamo che guardare con un pizzico di nostalgia a quelle opere capaci di appagare l’occhio ma anche di captare certe derive etiche in nuce nella società dell’epoca ed ora purtroppo compiutamente dispiegatesi anche a causa di una tecnologia sempre più
invasiva e fuori controllo.

Anton Chigurh

Mi chiamo Mattia, alias Anton Chigurh, classe 1975, ho fatto studi classici e sono orgogliosamente spezzino; cosa chiedo ad un film o ad una serie tv? Di farmi riflettere, di inquietarmi, di lasciarmi a bocca aperta, di divertirmi... Per sapere dove trovo tutto questo, leggete le mie recensioni su I Cinenauti!