NON È UN PAESE PER VECCHI
NON È UN PAESE PER VECCHI
GENERE: thriller
ANNO: 2007
PAESE: USA
DURATA: 122 minuti
REGIA: Ethan Coen, Joel Coen
CAST: Tommy Lee Jones, Javier Bardem, Josh Brolin, Woody Harrelson, Kelly MacDonald
Una terra abbandonata da Dio, una spietata caccia all'uomo, un fato ineluttabile che si compie, il sangue non è mai stato così facile... Dall'incontro tra il genio di Cormac McCarthy e l'arte dei fratelli Coen nasce uno dei film più importanti degli ultimi venti anni.
Siamo in Texas, ai confini col Messico: L’ex saldatore e reduce dal Vietnam Llewelyn Moss, durante una battuta di caccia alle antilopi, scopre la scena di un regolamento di conti tra narcotrafficanti; poco distante, accanto ad uno dei cadaveri, trova una valigia con svariati milioni di dollari. Llewelyn se ne impossessa intravedendo il miraggio di un radicale cambiamento per lui e la giovane moglie Carla Jean, ma una mossa avventata lo costringe alla fuga; alle sue calcagna si mettono alcuni messicani per conto del “cartello” nonché un killer enigmatico e feroce, tale Anton Chigurh – che elimina le sue vittime usando una pistola ad aria compressa simile a quella utilizzata per il bestiame -, incaricato dai proprietari del malloppo; allo stesso tempo lo sceriffo della contea Ed Tom Bell, ormai prossimo alla pensione e sfiduciato nei riguardi di un mondo che non riesce più a comprendere, si impegna per fermare i criminali e salvare lo sprovveduto Llewelyn.
Poco tempo fa ci ha lasciati un gigante della letteratura, Cormac McCarthy, e una delle poche cose che si conoscevano di lui con certezza (essendo notoriamente schivo e riservatissimo riguardo alla vita privata) era il suo amore per il cinema; tuttavia il rapporto tra i suoi scritti e la settima arte è stato piuttosto complicato, in parte per una oggettiva difficoltà a riportare sullo schermo la sua prosa così peculiare, in parte perchè quando si è cimentato nel ruolo di sceneggiatore (si veda ad esempio Il Procuratore diretto da Ridley Scott) non ha dato il meglio di sé; esiste però una magnifica eccezione.
Nel 2005 esce il nuovo romanzo di McCarthy, intitolato Non È Un Paese Per Vecchi; il produttore Scott Rudin (sempre sia lodato per questa intuizione) ne acquista i diritti e si fionda dai fratelli Coen, pressandoli perchè ne ricavino un adattamento.
I due inizialmente nicchiano, ma poi accettano la sfida e cominciano a buttare giù una sceneggiatura senza alcun timore reverenziale nei confronti di un autore già annoverato tra i più influenti della narrativa contemporanea; il fulcro del racconto è rappresentato dallo sceriffo Ed Tom Bell, i cui frequenti monologhi, però, si rendono conto i Coen, rischierebbero di far ingolfare irrimediabilmente il ritmo del plot; decidono così di sfrondarli in maniera considerevole, senza tuttavia che il personaggio perda un oncia del suo dolente carisma (per sicurezza chiamano ad interpretarlo un texano dal volto rugoso ed espressivo come il grande Tommy Lee Jones, così tutto diventa più facile), e lo stesso trattamento è riservato in qualche misura anche agli altri protagonisti, dei quali viene esaltata la parte più laconica: sono frasi brevi e secche, non di rado innervate da quel sottile humour nero che da sempre fa parte anche della loro personale cifra stilistica, ad essere riportate praticamente alla lettera, pescando poi dal mazzo solo pochi dialoghi più articolati e significativi (alcuni dei quali assurti a veri e propi cult, come quello tra Chigurh e il proprietario di una stazione di servizio, dove c’è un po’ tutta l’essenza dell’opera); architettano così una corsa contro il tempo a tappe forzate dal sostrato vagamente onirico (i tre “duellanti” si riflettono l’uno nell’altro e sembrano intrappolati in una coazione a ripetere, come in quegli incubi nei quali pur sforzandosi non si riesce a raggiungere il luogo o l’oggetto agognato: infatti si sfiorano ma praticamente non interagiscono mai tra loro per tutta la durata della pellicola, se non in maniera quasi subliminale o “mediata” – il conflitto a fuoco tra Moss e Chigurh, girato come uno scontro tra due fantasmi nella notte, e poi una successiva telefonata tra loro; Ed Tom che “immagina” Chigurh appostato nella stanza -, e i loro arti lacerati si rigenerano come quelli delle lucertole; addirittura, infine, la morte di Llewelyn, con una scelta anticonvenzionale ma profondamente coerente, avviene fuori campo), scandita dalle luci del deserto e da quelle delle insegne dei motel di periferia (da urlo la fotografia del maestro Roger Deakins, virata su toni ocra e marrone) nonché dai rumori naturali (non c’è praticamente colonna sonora, solo qualche effetto a cura del sodale di vecchia data Carter Burwell); la metafisica del “caso” ed il cupo pessimismo, venato, nei suoi interstizi, da un barlume di speranza (quella fiaccola nella notte…), si fondono così mirabilmente in una perfetta sintesi tra la loro poetica e quella dello scrittore di Providence.
I Coen si aggrappano poi ad un’altra regola aurea, ovverosia quella che designa la riuscita di una pellicola dallo spessore del cattivo: qui va aperta una grossa parentesi, poiché nel caso di Anton Chigurh parlare meramente di “cattivo” è quasi fuorviante.
Descritto infatti in pochi cenni come uno psicopatico dalla carnagione scura e gli occhi azzurri come lapislazzuli, Chigurh nelle mani dei Coen – grazie ad un lavoro certosino sulla mimica, sulla postura e sull’abbigliamento del personaggio, al quale uno Javier Bardem in stato di grazia aderisce con inarrivabile bravura -, diviene un qualcosa di iconico ed indimenticabile: basta vederlo avanzare coi suoi stivali di pelle di serpente dalla punta esageratamente rialzata, il ghigno indecifrabile, una pettinatura che improbabile è dire poco ma, lungi dal renderlo ridicolo, ne acuisce semmai l’alone sinistro, mentre brandisce il suo incredibile “arnese” da lavoro, per capire che si sta facendo la storia del cinema; Chigurh è incomprensibile ed inspiegabile, è mosso da principi “altri”, è l’angelo del caos partorito da un universo in veloce decomposizione: “Sempre per i maledetti soldi” esclama a un certo punto un collega sceriffo rivolto a Ed Tom; e allora perchè non far dipendere ogni destino da un lancio di moneta?
“Scegli, testa o croce?” “Ma lo capisci che non è la moneta a decidere? Che sei tu a decidere!” “Io e la moneta siamo arrivati allo stesso punto”.
In questo dialogo tra il killer e Carla Jean Moss è riassunta la nefasta anarchia che si sprigiona quando gli “spiriti animali” del capitalismo vengono lasciati allo stato brado: Chigurh è dunque il soggetto allo stesso tempo più coeniano e più mccarthyano di tutti, un perfetto “sismografo”, al pari del contraltare sceriffo Bell, di una crisi registrata nei suoi prodromi con geometrica lucidità (“Una triste marea”); siamo infatti nel 1980, all’inizio di quell’era Reagan che segnò il cambio di passo del paradigma socio-economico occidentale in senso fortemente neoliberista: ecco quindi la mercificazione sempre più spinta dell’esistenza (il gesto spontaneo, disinteressato, dev’essere
bandito: si veda la sequenza del ragazzino che vuole offrire la sua camicia ad un Anton sanguinante…), la maleducazione (“Quando la gente non dice più “signore” e “signora”, la fine è vicina”) e le mode grottesche (“Se venti anni fa mi avessi detto che avrei visto ragazzi andare in giro per le strade coi capelli verdi e un osso nel naso non ti avrei creduto e basta”), la perdita di senso del limite e di valori condivisi, tutti temi affini al genere per eccellenza del cinema americano, quel western della frontiera del quale Non È Un Paese Per Vecchi rappresenta una sorta di stilizzazione e di “superamento” in chiave noir e postmoderna (guardando anche ad un “irregolare” come il Sam Peckinpah di Voglio La Testa Di Garcia e, perchè no, al nostro Sergio Leone – in particolar modo Il Buono, Il Brutto, Il Cattivo -, e influenzando poi, ad esempio, una serie maestosa come Breaking Bad), perfettamente in linea coi tempi della saldatura tra economia legale ed illegale, dove i “peones” finiscono putrefatti in mezzo alla sabbia del deserto ma a tirare le fila sono i colletti bianchi negli uffici di smisurati grattacieli (“Sa, ho contato i piani di questo palazzo dalla strada” “E?” “Ne manca uno”: si presenta così, con l’aria semiseria, il sicario gentile Carson Wells/Woody Harrelson, facendoci capire che la grandezza di un film si misura anche dai personaggi secondari; e qui non abbiamo che l’imbarazzo della scelta, dalla Carla Jean Moss di Kelly Macdonald alla Loretta Bell di Tess Harper sino al Wendell di Garret Dillahunt, tutti capaci di lasciare il segno in poche battute).
Per i puri di cuore, per gli eterni sconfitti, restano invece i sensi di colpa (chi si alzerebbe nel cuore della notte per portare da bere ad un delinquente moribondo, se non un bonaccione cresciuto tra le mandrie in un ranch, uno insomma con la fisicità e la faccia da schiaffi dell’eccellente Josh Brolin nei panni di Llewelyn Moss?) e i dubbi di non aver preservato abbastanza l’eredità materiale e spirituale dei padri. “Se le regole che hai seguito ti hanno portato fino a questo punto, a che servono quelle regole?”, dice Anton Chigurh al culmine di uno scambio serrato con Carson Wells, gestito con un magistrale campo e controcampo che esalta la finezza della recitazione di Bardem e Harrelson: è una domanda che forse dovremmo porci più spesso anche noi, magari mentre guardiamo e riguardiamo questo capolavoro.