LOVE AND OTHER CULTS

Love and other cults

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GENERE:         drammatico

ANNO:             2017

PAESE:             Giappone

DURATA:         91 minuti

REGIA:             Eiji Uchida

CAST:              Sairi Itoh, Kenta Suga, Kaito Yoshimura, Hako Ohshima, Ami Tomite, Denden

"Love and Other Cults" (titolo originale: "Kemonomichi") è un film indipendente giapponese che esplora con sguardo crudo ma al tempo stesso poetico la gioventù emarginata del Giappone contemporaneo. Attraverso la storia di Ai, ragazza abbandonata che rimbalza tra culti religiosi, famiglie adottive e l'industria del sesso, il regista Eiji Uchida dipinge un ritratto sfaccettato della società giapponese, mettendo in luce le sue fratture e contraddizioni. Un'opera dolorosa ma illuminante che mescola tenerezza e brutalità nell'esplorare il bisogno universale di appartenenza, offrendo uno sguardo non convenzionale sulle sottoculture giovanili e sul concetto di famiglia in un Giappone raramente mostrato al pubblico occidentale.

La narrazione si apre mostrandoci Ai bambina, vittima di una madre psicologicamente instabile ossessionata dalla religione, che la ignora totalmente e non prende minimamente in considerazione gli atti di autolesionismo che la piccola compie al fine di avere un minimo di attenzione. Questo primo trauma segna l’inizio di un percorso esistenziale tortuoso che la porterà a essere ceduta a un culto pseudo-religioso guidato da un leader carismatico che si proclama il nuovo Gesù. La comunità, situata in un’area rurale lontana dalla frenesia urbana, diventa paradossalmente il primo luogo dove Ai si sente accettata e amata, nonostante l’evidente sfruttamento a cui è sottoposta.

Quando il culto viene smantellato dalla polizia, Ai inizia un’odissea che la porta a girovagare tra famiglie fittizie e gruppi di amicizie sbagliati ai margini della società e della malavita. È in questo contesto che emergono i traumi più profondi della protagonista, costretta a confrontarsi con l’assenza di un vero nucleo familiare e con l’impossibilità di creare legami duraturi.

Ciò che rende “Love and Other Cults” particolarmente incisivo è la sua struttura narrativa frammentata, che riflette perfettamente la vita disordinata e caotica della protagonista. Il film alterna costantemente passato e presente, seguendo anche la storia parallela di Ryota, un giovane delinquente interpretato da Kenta Suga, che incrocia ripetutamente il cammino di Ai. Attraverso questi due personaggi, Uchida esplora diverse sfaccettature della marginalità giapponese: le gang giovanili, la yakuza di provincia, l’industria del sesso, le famiglie disfunzionali e i sistemi di affido temporaneo.

Il lungometraggio non è soltanto la storia di Ai, ma un vero e proprio affresco sociale che mette a nudo le contraddizioni di un Giappone raramente rappresentato nei media mainstream. Uchida dirige il suo sguardo verso quelle zone d’ombra della società nipponica che il miracolo economico e l’immagine di efficienza e ordine hanno contribuito a nascondere: la povertà rurale, l’alienazione giovanile, il vuoto spirituale mascherato dal consumismo, e l’incapacità delle istituzioni di proteggere i più vulnerabili.

L’opera esplora anche il fenomeno dell’enjo kōsai, una pratica in cui giovani studentesse offrono compagnia e talvolta favori sessuali a uomini più anziani in cambio di denaro o regali. Attraverso questo aspetto controverso della società, il regista mette in evidenza come la mercificazione del corpo diventi per alcuni adolescenti emarginati l’unico mezzo per ottenere un riconoscimento sociale o per sopravvivere economicamente.

Particolarmente toccante è la rappresentazione del bisogno di Ai di trovare una propria identità. Nel corso della storia, la vediamo trasformarsi ripetutamente: da devota in abiti tradizionali a gyaru con capelli biondi e make-up appariscente, da studentessa modello a prostituta, in un continuo tentativo di adattarsi alle aspettative altrui per ottenere accettazione. Questa metamorfosi continua diventa una potente metafora della crisi identitaria che affligge molti giovani giapponesi, stretti tra il peso delle tradizioni e le pressioni della modernità.

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La fotografia di Kentaro Kishi contribuisce in modo determinante all’atmosfera del film. Le scene ambientate nel culto religioso sono bagnate da una luce dorata quasi trascendentale, in netto contrasto con i toni freddi e metallici che dominano le sequenze urbane e quelle legate al mondo criminale. Questa dicotomia visiva sottolinea efficacemente la frantumazione dell’esperienza di Ai e l’impossibilità di trovare una coerenza nella propria esistenza.

Il cuore pulsante del film è senza dubbio la performance di Sairi Ito nei panni di Ai. L’attrice riesce a infondere nel personaggio una vulnerabilità palpabile che coesiste con una sorprendente resilienza. Nei suoi occhi si legge tutto il peso di un’infanzia negata e di un’adolescenza sacrificata, ma anche una determinazione quasi feroce a sopravvivere nonostante tutto. La sua interpretazione non scade mai nel melodramma, mantenendo invece un realismo che rende la sua sofferenza ancora più tangibile per lo spettatore.

Altrettanto convincente è Kenta Suga nel ruolo di Ryota, il cui percorso di delinquenza rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia: un altro tipo di marginalità, un altro tipo di ricerca di appartenenza. Il loro rapporto, che si sviluppa in modo intermittente durante tutta la narrazione, è caratterizzato da un’intimità che trascende il romanticismo convenzionale, configurandosi piuttosto come il riconoscimento reciproco di anime affini nella loro alienazione.

Il cast di supporto offre un mosaico di personaggi eccentrici ma profondamente umani: dalla madre disturbata di Ai all’affascinante leader del culto, dai membri della gang di Ryota alle figure fuggevolmente materne che Ai incontra nelle sue peregrinazioni. Ognuno di questi personaggi, anche quelli con poco tempo sullo schermo, contribuisce a creare un microcosmo credibile e stratificato.

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“Love and Other Cults” si inserisce nella tradizione di un certo cinema giapponese indipendente che non teme di esplorare le zone d’ombra della società e della psiche umana. Riecheggia l’opera di registi come Sion Sono (“Love Exposure”) e Tetsuya Nakashima (“Confessions”), pur mantenendo una voce distintiva. Uchida, che aveva già affrontato tematiche simili in “Lowlife Love”, dimostra qui una maturità registica notevole, bilanciando momenti di crudo realismo con sequenze di bellezza quasi onirica.

Il film, presentato in numerosi festival internazionali tra cui l’Udine Far East Film Festival, ha ricevuto riconoscimenti per la sua brutale onestà e per la potenza delle interpretazioni. 

Un aspetto particolarmente interessante è il suo approccio alla rappresentazione della violenza e della sessualità. Pur non risparmiando allo spettatore immagini disturbanti, il cineasta nipponico evita qualsiasi forma di spettacolarizzazione o estetizzazione di questi elementi. La violenza è mostrata nella sua cruda banalità, come parte integrante dell’esperienza quotidiana dei protagonisti, senza alcuna concessione al voyeurismo o all’esaltazione.

Il film non offre facili risposte o redenzioni miracolose. Il suo finale, aperto e ambiguo, suggerisce che per persone come Ai e Ryota non esistano vere e proprie soluzioni all’interno di una società che li ha sistematicamente emarginati. Eppure, in questa conclusione apparentemente pessimistica si intravede un barlume di speranza: la possibilità che, nel riconoscimento reciproco della propria alienazione, questi personaggi possano trovare una forma autentica di connessione umana.

La struttura narrativa non lineare merita un’analisi più approfondita. l’opera introduce inizialmente il punto di vista di Ryota, che racconta come la sua vita abbia incrociato quella di Ai. Attraverso una serie di flashback e salti temporali, assistiamo alla frammentazione dell’esistenza dei protagonisti, riflessa perfettamente dalla destrutturazione della narrazione. Questa tecnica narrativa non è un mero esercizio di stile, ma una scelta profondamente funzionale al tema del film. La discontinuità temporale rispecchia l’impossibilità per i personaggi di costruire un’identità coerente e di dare un senso unitario alla propria esistenza. Come Ai cambia continuamente aspetto e personalità in base al contesto in cui si trova, così la narrazione si trasforma e si adatta, rifiutando la linearità convenzionale.

Il regista utilizza anche tecniche visive distintive per differenziare i vari periodi della vita di Ai: la saturazione dei colori, la grana dell’immagine e persino il formato cambiano sottilmente per indicare i passaggi temporali e i cambiamenti identitari della protagonista. Questo approccio multilivello alla narrazione crea un’esperienza cinematografica immersiva che coinvolge lo spettatore non solo intellettualmente ma anche visceralmente.

“Love and Other Cults” è un film che sfida lo spettatore a guardare oltre la superficie patinata del Giappone contemporaneo per scoprire le vite di coloro che sono stati lasciati indietro dal progresso e dal conformismo sociale. Con una sensibilità che evita sia il giudizio morale che la romanticizzazione della marginalità, Uchida crea un’opera che resta impressa nella memoria come un potente promemoria delle conseguenze umane dell’esclusione sociale.

Il film affronta anche il tema della religiosità distorta e dell’attrazione che i culti esercitano sulle persone vulnerabili. Il culto a cui Ai viene affidata rappresenta una critica alle organizzazioni religiose che sfruttano il bisogno di appartenenza e di trascendenza per manipolare i propri adepti. Non è un caso che proprio in Giappone, un paese con un rapporto complesso con la spiritualità tradizionale, i nuovi movimenti religiosi abbiano trovato terreno fertile, specialmente dopo la crisi economica degli anni ’90 e il conseguente sgretolamento di certezze sociali.

Un altro elemento significativo è la rappresentazione delle sottoculture giovanili giapponesi. L’opera mostra diverse tribù urbane, dai bosozoku (gang di motociclisti) ai gyaru (giovani donne con un look ispirato alla cultura occidentale), evidenziando come queste identità subculturali fungano da rifugio per giovani che non trovano il proprio posto nella società mainstream. Questi gruppi, con i loro codici estetici e comportamentali, offrono un senso di appartenenza a chi è stato respinto dalle istituzioni tradizionali come la famiglia e la scuola.

In un’epoca in cui il cinema mainstream tende sempre più spesso alla semplificazione e all’evasione, “Love and Other Cults” rappresenta un coraggioso esempio di narrazione che non teme di confrontarsi con la complessità dell’esperienza umana e con le contraddizioni irrisolte della società contemporanea. Un piccolo gioiello del cinema indipendente giapponese che merita di essere scoperto e apprezzato da un pubblico più ampio.

“Love and Other Cults” non è un film facile né consolatorio, ma è un’opera necessaria che illumina angoli bui della società giapponese e, per estensione, di tutte le società contemporanee. Attraverso la storia di Ai e Ryota, Eiji Uchida ci invita a riflettere su cosa significhi veramente appartenere, su come l’identità si formi attraverso relazioni autentiche e non attraverso etichette o apparenze.

Ci ricorda che dietro la facciata di ordine e armonia di ogni società si nascondono sempre storie di esclusione e sofferenza, e che l’unica redenzione possibile passa attraverso l’accettazione reciproca delle proprie ferite e della propria umanità imperfetta. In questo senso questo è un film profondamente umanista, che crede nella possibilità di connessione autentica anche nelle circostanze più avverse.

John il boia Ruth

Sono Gilberto, alias John il boia Ruth, la mente che ha dato forma a questo progetto. Nella vita mi occupo di web: dal marketing alla grafica, dalla progettazione di siti ai Social Network. Ne I Cinenauti ho voluto fondere il mio lavoro, che amo, con la mia più grande passione, il cinema. Prediligo gli horror, meglio se estremi e disturbanti, i thriller, i fantasy e i film d'azione. Insomma divoro qualsiasi cosa cercando di non farmi condizionare dai pregiudizi.