ANIME NERE
ANIME NERE
GENERE: thriller, poliziesco, drammatico
ANNO: 2014
PAESE: Italia, Francia
DURATA: 103 minuti
REGIA: Francesco Munzi
CAST: Marco Leonardi, Peppino Mazzotta, Fabrizio Ferracane, Barbora Bobulova, Anna Ferruzzo
Sangue chiama sangue, nascere in certi luoghi sembra una maledizione emendabile solo con il totale annullamento della propria stirpe: sono nere come la pece le anime in quest'opera imperdibile di Francesco Munzi.
Luigi, Rocco e Luciano Ferraro sono tre fratelli calabresi: i primi due sono affiliati alla ‘Ndrangheta e si occupano di traffici ed attività imprenditoriali tra il nord Italia e il nord Europa, mentre il terzo è sempre rimasto nel paese di origine facendo il contadino e l’allevatore, con il proposito di non farsi immischiare in attività illecite; il figlio di quest’ultimo, però, per vendicarsi dopo un battibecco, spara contro il bar appartenente ad esponenti del clan Barreca, da anni rivale dei Ferraro; il gesto riapre antiche ruggini solo momentaneamente sopite ed innesca così una reazione a catena dalle conseguenze devastanti.
Mafia, Camorra, Banda della Magliana: non si esce da questo triumvirato quando la mente va al crime-movie nostrano, tornato prepotentemente in auge negli ultimi tre lustri sulla scia di due autentici fenomeni editorial-cinematografico-seriali come Romanzo Criminale e Gomorra; la ‘Ndrangheta invece, pur essendo una consorteria molto potente e in costante ascesa, non ha mai avuto sullo schermo lo stesso appeal delle “consorelle”: sarà forse per questo motivo che, pur essendo transitato a Venezia ed avendo ricevuto svariati premi ai David di Donatello e ai Nastri D’Argento, ci si è presto dimenticati di un film potente e radicale come Anime Nere, opera seconda di Francesco Munzi (il quale, già con l’esordio Il Resto Della Notte, ci aveva consegnato un’opera urticante e politicamente scorretta nel rappresentare un certo tipo di immigrazione clandestina e il suo impatto sul tessuto sociale); il regista romano, adattando liberamente il romanzo di Gioacchino Criaco, qui in veste di collaboratore alla sceneggiatura, si serve di tre figure archetipiche per condurci all’interno di un’organizzazione che ha ormai ramificazioni a svariati livelli, dal traffico di droga alle imprese edili finanziate coi proventi illeciti, ma rimanendo sempre molto ancorata alle radici di sangue della territorialità d’origine: un legame quasi ancestrale, impossibile da recidere, che passa anche attraverso dettagli come l’uso insistito del dialetto stretto (il film è provvisto di sottotitoli per la quasi totalità dei dialoghi) e certe peculiari abitudini alimentari tramandate di generazione in generazione (la carne di capra uccisa con le proprie mani e poi stufata).
Così, nonostante la mentalità dei quarantenni che hanno in mano le redini sia ormai tendenzialmente quella di evitare il più possibile le faide intestine per concentrarsi su un business divenuto internazionale, si finisce sempre per tornare ad Africo (il film è girato nella location spettrale del borgo abbandonato di Casalinuovo), terra brulla e inospitale se mai ce n’è stata una, ma soprattutto luogo dell’anima, dove le donne vestite di scuro osservano eventi sui quali non hanno voce in capitolo e i giovani mordono il freno imparando presto ad imbracciare le armi per difendere un distorto codice d’onore; neanche l’autorità di un padre che ha sempre cercato di stare “di lato” a tutto questo, perchè nella sua vita ha visto che la violenza porta ad altra violenza senza soluzione di continuità e vorrebbe salvare il salvabile, può nulla di fronte alla seduzione sinistra di determinati disvalori: tutto sfugge di mano a tutti, è il destino lento ma inesorabile che li marchia a fuoco dalla nascita, e a cui poi la maggioranza di loro ha anche finito per aderire con convinzione.
Munzi rifugge da ogni inutile spettacolarizzazione (difetto ormai congenito a questo tipo di opere) ma non sposta mai nemmeno il canovaccio su un piano meramente documentaristico (pur provenendo da questo ambito): Anime Nere, nel suo incedere quasi da tragedia greca dentro un Aspromonte dove la dannazione ha l’aria di incombere sugli esseri umani come una cappa plumbea, è un film di un’asciuttezza esemplare (che non ha niente da invidiare, anzi, a quella con la quale Matteo Garrone ha trasposto il best seller di Roberto Saviano), dove nessuna inquadratura è mai pleonastica e nessuna parola sprecata, perchè ognuna di esse pesa come un macigno (straordinaro, va detto, è tutto il cast – anche nei ruoli minori occupati da non professionisti selezionati nei luoghi di ripresa -, capitanato da Marco Leonardi, Peppino Mazzotta e soprattutto un tormentato Fabrizio Ferracane, il quale regala brividi soprattutto nel corso di un’escalation finale secca e disperata), risultando così molto più autentico e disturbante di tanti prodotti stereotipati e “modaioli”.