GONE GIRL (L'AMORE BUGIARDO)
GONE GIRL (L'AMORE BUGIARDO)
GENERE: thriller
ANNO: 2014
PAESE: USA
DURATA: 145 minuti
REGIA: David Fincher
CAST: Ben Affleck, Rosamund Pike, Neil Patrick Harris, Tyler Perry, Carrie Coon, Kim Dickens, Missi Pyle, Patrick Fugit, Casey Wilson, Kathleen Rose Perkins, Scoot McNairy, Emily Ratajkowski
Nick ed Amy sono una coppia apparentemente felice: un colpo di fulmine scoccato a Brooklyn dove entrambi lavorano nel campo dell’editoria (lui come aspirante scrittore, lei come “testimonial” di una famosa serie di libri per bambini creata dai genitori Merybeth e Rand, due affermati psicologi – la cui protagonista, “Amazing Amy”, è “modellata” sulla sua persona -), il matrimonio e poi il trasferimento in Missouri per accudire la madre di Nick malata di cancro; nemmeno la crisi economica e le conseguenti difficoltà lavorative occorse ad entrambi sembrano scalfire questa unione. La mattina del loro quinto anniversario, però, Amy scompare improvvisamente; la polizia, dopo accurati sopralluoghi nell’abitazione dei due coniugi, trova abbondanti tracce di sangue in corrispondenza di quelli che hanno l’aria di essere i segni di una collutazione; comincia a farsi strada l’ipotesi dell’omicidio e Nick diventa l’indiziato numero uno, anche perchè a poco a poco vengono fuori molti particolari che gettano una luce inquietante sui rapporti con la moglie; la verità, però, si rivelerà ben diversa…
Lasciatosi alle spalle un progetto su “commissione” come Millennium-Uomini Che Odiano Le Donne – remake dell’omonimo film svedese tratto dal primo capitolo della fortunata saga della detective-hacker Lisbeth Salander scritta da Stieg Larsson -, David Fincher si butta a capofitto nell’adattamento del romanzo Gone Girl (in italiano L’Amore Bugiardo) della scrittrice Gillian Flynn, alla quale offre il compito di redigere la sceneggiatura.
Quasi ammiccando ironicamente alla sua opera precedente (come fece Brian De Palma quando, in risposta alle insinuazioni di aver usato una controfigura nelle scene di nudo di Angie Dickinson in Vestito Per Uccidere, intitolò Body Double – appunto “controfigura”, ma da noi conosciuto come Omicidio A Luci Rosse – il suo film successivo…) Fincher parte dall’assunto di un giovanotto di provincia (Ben Affleck, assolutamente perfetto per il ruolo) trovatosi improvvisamente al centro di un terribile sospetto (è un “uomo che odia le donne” al punto tale da uccidere brutalmente quella a lui più vicina? O sono le donne ad odiare ingiustamente lui, sottoponendolo ad un processo sommario che ha molto di ideologico ma poche concrete rispondenze nei fatti?) e imbastisce così – con una perizia registica come al solito magistrale e qui davvero al suo apice per sobrietà e ricercatezza nelle inquadrature e nei movimenti di macchina, con i fidati Jeff Cronenweth e Reznor/Ross rispettivamente alla fotografia e all’“insinuante” commento sonoro – un magnifico melodramma-noir di stampo Hitchcockiano, a cominciare dalla scelta della bionda algida Rosamund Pike come splendida protagonista nel ruolo, se vogliamo, di un’altra “donna che visse due volte” (ma il personaggio di Amy propone chiari rimandi, con tanto di citazione dell’omicidio iniziale, anche alla Catherine Tramell di Basic Instinct – altro film che a suo modo ha rielaborato la lezione del Maestro inglese “segnando” l’immaginario dei primi anni novanta – ), nel quale si diverte, mano a mano che procede nella narrazione, a frantumare ogni certezza acquisita.
Sono le “scene da un matrimonio” – filtrate attraverso il racconto vergato da Amy in un diario segreto (ma quanto ci sarà di vero in ciò che ascoltiamo e vediamo?) e alternate alle indagini – a contrassegnare la prima parte dell’opera, sino ad un colpo di scena che alla metà esatta rimescola le carte e fa letteralmente cominciare tutta un’altra storia (in una sorta, per tornare ad Hitchcock, di Psycho rovesciato…); nel segmento finale, poi, Fincher abbandona in modo calcolato ogni verosimiglianza per avvalorare radicalmente la tesi di fondo della sua pellicola: recitiamo continuamente una parte, ad esempio per conquistare (o riconquistare…) una donna oppure uno status sociale, alimentando noi stessi il “Truman Show” nel quale poi inevitabilmente ci ritroviamo incastrati; il resto lo fa un apparato tecnologico invasivo, che scandisce il ritmo delle nostre azioni e plasma la sostanza dei nostri pensieri, dunque la realtà è stata ormai sostituita dalla sua rappresentazione/enfatizzazione mediatica e l’opinione pubblica viene “pilotata” secondo logiche “tribali” – c’è una simil-Barbara D’Urso che imperversa h24, ora in qualità di accusa, giudice e boia, ora di “fatina buona” del perdono e della riconciliazione – : qui il regista di Denver ne approfitta anche per stigmatizzare una certa retorica sul cosiddetto “femminicidio”, che banalizza un tema dalle sfaccettature estremamente complesse declinandolo esclusivamente in una caccia alle streghe nei confronti della componente maschile; ed è significativo il fatto che gli unici a non “abboccare” a questa “narrazione” siano due “redneck” sbandati, i quali hanno imparato dalla dura legge della strada a “fiutare” l’essenza autentica delle persone, risultando perciò più refrattari determinati condizionamenti.
Vanno però rigettate al mittente le accuse di misoginia piovute da più parti – in un cortocircuito tra finzione scenica e vita vera che è poi lo stesso denunciato dal film – : Gone Girl è scritto da una donna ma privilegiando un punto di vista maschile (a differenza del libro, che mantiene un maggiore equilibrio tra le parti), e forse proprio per questo riesce a toccare alcuni nervi scoperti e a mantenere un’anima ambigua e “scorretta”, restando però un film troppo complesso per poterlo ridurre a facili etichette; volendoci addentrare nella costruzione dei personaggi, bisogna comunque notare che Amy è sì carnefice ma anche vittima, non tanto di violenze da parte del marito probabilmente mai avvenute, ma di genitori che le hanno rubato l’infanzia e l’adolescenza per farneun “avatar”/macchina da soldi (sono loro a ben guardare, pur apparendo poco, i veri villain…); la pellicola poi presenta figure femminili inequivocabilmente positive come Margo, sorella del protagonista e sua voce critica nonché imprescindibile sostegno morale (una bravissima Carrie Coon), senza dimenticare la detective Rhonda Boney (Kim Dickens), caratterizzata da buon senso ed empatia umana; non si fanno poi di certo sconti agli uomini, a cominciare da Nick stesso, dipinto sostanzialmente come un bamboccione senza spina dorsale, per arrivare al Desi Collings di Neal Patrick Harris, il quale, dietro una “facciata” di premure ed attenzioni, manifesta ben presto il lato patologico dello stalker possessivo.
Gone Girl, semmai, sviscera a trecentosessanta gradi le tortuose dinamiche all’interno del rapporto di coppia nell’attuale contesto socio-economico, in un “dietro le quinte” condotto con una precisione ed una sarcastica spietatezza che sul grande schermo raramente si erano registrate, e senza arretrare di un millimetro nel tirare le fila del discorso (la geniale conclusione è di una perfidia raggelante nella sua apparente “zuccherosità”). Bisogna allora ribadire che Fincher, pur non parlando quasi mai apertamente di politica, si è dimostrato invece negli anni uno dei registi più “politici” nell’ambito del cinema mainstream d’autore: partendo infatti dall’“autopsia” del “sogno americano” – lo stile di vita individualista e iperconsumistico che genera devianza e nichilismo estremo (Seven e Fight Club); la paranoia post- 11 settembre (Panic Room); la sociopatia al potere, con una galleria di personaggi che comprende l’uomo d’affari Nicholas Van Orton (The Game), mr. Facebook Mark Zuckerberg (The Social Network), l’“influencer” snob newyorkese Amy (Gone Girl) e infine il tycoon William Randolph Hearst (Mank), che storicamente li precede e in un certo senso li riassume tutti – è stato in grado di rappresentare come pochi altri, senza pedanterie intellettualistiche e attraverso uno stile sì molto peculiare ma sempre di grande sostanza spettacolare, il “cuore di tenebra” della società occidentale.