BULLET BALLET

bullet ballet

bullet ballet i cinenauti recensioni film serie tv cinema

GENERE:         drammatico, thriller

ANNO:             1998

PAESE:             Giappone

DURATA:         87 minuti

REGIA:            Shin’ya Tsukamoto

CAST:              Shin’ya Tsukamoto, Kirina Mano, Tatsuya Nakamura, Takahiro Murase, Kyoka Suzuki

"Bullet Ballet" è un'opera febbrile e visivamente ipnotica di Shin’ya Tsukamoto che esplora l'ossessione per le armi, la violenza urbana e l'alienazione nella Tokyo di fine anni '90. Con il suo caratteristico stile visivo frenetico in bianco e nero sporco e contrastato, Tsukamoto crea un incubo metropolitano dove un uomo comune discende negli abissi della violenza dopo il suicidio della sua ragazza. Un film brutale e visivamente sperimentale che rappresenta perfettamente la "trilogia di Tokyo" del regista e il suo cinema cyberpunk-esistenzialista.

Nel panorama cinematografico giapponese degli anni ’90, pochi registi sono stati in grado di rappresentare l’angoscia urbana e la crisi esistenziale dell’individuo moderno con la stessa intensità visionaria di Shinya Tsukamoto. “Bullet Ballet” (1998) si colloca come secondo capitolo della sua informale “trilogia di Tokyo”, preceduto da “Tokyo Fist” (1995) e seguito da “A Snake of June” (2002), e rappresenta forse il momento più nichilista e disperato dell’esplorazione del regista dei temi della violenza, dell’alienazione metropolitana e della trasformazione del corpo.

Girato in un crudo bianco e nero granuloso con una cinepresa spesso a mano che sembra quasi febbricitante, “Bullet Ballet” racconta la storia di Goda (interpretato dallo stesso Tsukamoto), un regista di spot pubblicitari la cui vita viene sconvolta quando la sua fidanzata di lunga data, Kiriko, si suicida inspiegabilmente con una pistola. Questo evento traumatico innesca nell’uomo un’ossessione patologica per le armi, in particolare per il modello specifico usato dalla ragazza: una Chief Special .38. La sua ricerca lo porta ad interagire con una banda di giovani delinquenti di cui f parte l’enigmatica Chisato (Kirina Mano), che diventerà sia sua antagonista che oscuro oggetto del desiderio.

La trama procede seguendo una discesa negli inferi della Tokyo sotterranea, dove Goda cerca disperatamente non solo di ottenere un’arma in un paese con severe leggi sul controllo delle armi, ma anche di comprendere cosa abbia spinto la sua compagna al suicidio. Questa ricerca si trasforma presto in un viaggio autodistruttivo dove la violenza diventa paradossalmente sia minaccia che forma di liberazione.

Ciò che distingue l’opera nel corpus dell’opera di Tsukamoto è la sua esplorazione quasi metafisica dell’attrazione per le armi da fuoco. La pistola diventa un simbolo multilivello: è estensione del corpo (tema caro al regista sin da “Tetsuo: The Iron Man”), oggetto di potere fallico, strumento di autodistruzione e, paradossalmente, mezzo di connessione umana in un ambiente urbano altrimenti alienante. L’ossessione di Goda per l’arma ci ricorda quella del protagonista di “Taxi Driver” di Scorsese, ma con una connotazione ancora più viscerale e corporea.

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La fotografia in bianco e nero, sempre curata dallo stesso regista, trasforma Tokyo in un incubo claustrofobico dove luci al neon, passaggi sotterranei e vicoli umidi creano un labirinto urbano soffocante. I primi piani estremi, le inquadrature inclinate e il montaggio frenetico creano un’esperienza visiva destabilizzante che riflette il disorientamento interiore del protagonista. La città non è solo sfondo ma diventa personaggio, un organismo pulsante che ingoia i suoi abitanti.

Le sequenze di violenza, tipicamente tsukamotiane, sono brutali e coreografate come danze primitive: i pestaggi, gli scontri tra bande e i tentativi maldestri di Goda di difendersi hanno una qualità quasi ritualistica. La violenza non è mai glamourizzata, ma presentata nella sua crudezza meccanica, nella sua banalità terrificante. È interessante notare come, nonostante sia un film centrato sulle armi da fuoco, gran parte della violenza sia corporea, fisica – come se Tsukamoto volesse sottolineare che, in ultima analisi, è sempre il corpo umano il vero campo di battaglia.

La progressione narrativa si sviluppa come una spirale discendente, dove ogni tentativo di Goda di comprendere o controllare la situazione lo porta più in profondità nell’abisso. Il personaggio di Chisato funziona come controparte femminile e specchio deformato: entrambi sono attratti dalla violenza, ma mentre l’uomo vi cerca una risposta all’incomprensibile suicidio della fidanzata, la ragazza sembra trovarvi un perverso senso di libertà. La loro relazione ambigua, fatta di attrazione e repulsione, diventa l’asse emotivo attorno a cui ruota la seconda metà del film.

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La colonna sonora, composta da Chu Ishikawa, collaboratore di lunga data di Tsukamoto, mescola suoni industriali, percussioni metalliche e distorsioni elettroniche creando un paesaggio sonoro angosciante che amplifica l’esperienza visiva. Il suono in “Bullet Ballet” non è mai decorativo, ma parte integrante della narrazione, elemento che materializza l’angoscia e la disintegrazione psichica dei personaggi.

Ciò che rende questo film un’opera fondamentale nel cinema giapponese degli anni ’90 è il suo essere contemporaneamente un film profondamente personale e una riflessione sulla società giapponese post-bolla economica. Dietro l’apparente semplicità della trama pulp si cela una meditazione sulla perdita d’identità, sull’erosione dei legami sociali e sulla mercificazione dell’esistenza nella società dei consumi. I giovani delinquenti non sono semplici antagonisti, ma rappresentanti di una generazione smarrita, privata di prospettive e ridotta a cercare sensazioni estreme per sentirsi viva.

Il finale del film, con la sua ambiguità irrisolta, conferma la visione del grande cineasta nipponico: non c’è redenzione semplice, né catarsi liberatoria. La spirale di violenza può temporaneamente arrestarsi, ma le ferite – fisiche e psichiche – rimangono. In questo senso, “Bullet Ballet” si colloca nella tradizione del cinema esistenzialista giapponese, da Oshima a Imamura, dove la trasformazione personale passa necessariamente attraverso la distruzione e la sofferenza.

A più di vent’anni dalla sua uscita, rimane un’opera di straordinaria potenza visiva e concettuale, un film che sfida lo spettatore non solo con le sue immagini disturbanti, ma con la sua riflessione sul significato della violenza nella società contemporanea. Nell’era della violenza iper-spettacolarizzata dei blockbuster, l’approccio viscerale e low-fi di Tsukamoto risulta paradossalmente più autentico e sconvolgente, ricordandoci che il vero orrore non risiede negli effetti speciali, ma nell’abisso dell’animo umano.

Come capitolo centrale della “trilogia di Tokyo”, “Bullet Ballet” rappresenta forse il momento più puro e distillato della poetica di Tsukamoto: un cinema del corpo e della metropoli, dove l’identità umana è costantemente minacciata, deformata e ricreata attraverso il dolore e la metamorfosi. Un’opera essenziale per comprendere non solo l’evoluzione di uno dei più originali autori giapponesi contemporanei, ma anche le ansie e le contraddizioni della società post-industriale giapponese alla fine del ventesimo secolo.

John il boia Ruth

Sono Gilberto, alias John il boia Ruth, la mente che ha dato forma a questo progetto. Nella vita mi occupo di web: dal marketing alla grafica, dalla progettazione di siti ai Social Network. Ne I Cinenauti ho voluto fondere il mio lavoro, che amo, con la mia più grande passione, il cinema. Prediligo gli horror, meglio se estremi e disturbanti, i thriller, i fantasy e i film d'azione. Insomma divoro qualsiasi cosa cercando di non farmi condizionare dai pregiudizi.