IL RESPIRO DELLA FORESTA

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Cinese proveniente da una città costiera della Contea di Wenling, a sud di Shangai, Jin Huaqing vanta una buona esperienza nel mondo dei documentari, nonostante la giovane età, avendo già diretto, tra gli altri, gli interessanti ‘The Tibetan girl’ e ‘Lacrime di stelle’. Le precedenti opere però, tutte di durata inferiore all’ora, hanno richiesto senza dubbio un impegno inferiore per il regista rispetto a questo ‘Il respiro della foresta’, suo esordio nel lungometraggio, che Wanted distribuirà nei cinema italiani a partire dal 22 Maggio, e che ho avuto la fortuna di poter vedere in anteprima.

‘Il respiro della foresta’ si può in effetti considerare, per certi versi, un’estensione del precedente cortometraggio ‘The Tibetan girl’, nel quale la protagonista, una ragazza tibetana, viene sostituita dalle circa diecimila monache praticanti che popolano l’altopiano nel quale sono situati il tempio di Yarchen e l’istituto religioso ad esso collegato, connessi alla tradizionale scuola buddista Nyingma. Questa città- monastero, situata a 4000 metri di altezza nella regione del Sichuan, è abitata in grande maggioranza da monache cinesi e tibetane note per la pratica del Tummo. Nel periodo più freddo dell’anno le monache passano 100 giorni di ritiro spirituale in capanne di fortuna che formano così, nei pressi del monastero, il fenomeno che ha suggerito il titolo internazionale del film, ‘The dark red forest’. Si tratta quindi di una sorta di foresta, su un terreno in origine pietroso, brullo e ghiacciato, formata da chiazze di colore rosso scuro, dalla tinta di molte delle capanne e, soprattutto, del mantello delle monache. Solo alle suore più anziane e malate è concesso di ritirarsi la notte nel monastero, mentre le altre affrontano il freddo terribile delle montagne tibetane pregando, recitando i sutra, cantando e studiando. A seguire le donne c’è un guru che le guida nel loro percorso ascetico ed a seconda dei casi le interroga, le sprona, le rimprovera o le elogia.

Nel contempo all’interno del tempio si continua a perseguire l’obiettivo primario della struttura, cioè quello di preservare la cultura tibetana buddista, sempre cercando di rispettare (il guru lo ripete spesso alle monache) i dettami del governo cinese, nel tentativo evidente (ma alla luce dei fatti infruttuoso) di rifuggire qualsivoglia incidente diplomatico. Ci vengono quindi mostrati frammenti di vita quotidiana di Yarchen, le grandi preghiere di gruppo, la pastorizia di puro sostentamento, la preparazione del cibo, l’uso della medicina tradizionale, fino all’antico rito funerario della ‘Sepoltura celeste’. Il rito, a lungo vietato dal governo cinese ma di nuovo consentito dagli anni ’80, prevede che il monaco defunto venga spogliato, scuoiato e smembrato con un’ascia per poi essere esposto agli avvoltoi che se ne cibano. Tale tradizione unisce a ragioni religiose, nel buddismo il corpo è considerato un involucro che, svuotato dalla coscienza dopo la morte e la successiva pratica del phowa, non ha più alcuna funzione, motivi più banalmente pratici.

L’altitudine dell’altopiano del Tibet lascia in dono ai propri abitanti terreni duri, gelati e spesso anche pietrosi, che rendono complicata la sepoltura, mentre la scarsità della vegetazione, e quindi di legno, non facilita la cremazione.

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La difficoltosa genesi del documentario, le cui riprese iniziarono nel 2017, ebbe una svolta imprevista nell’inverno del 2018 quando a molte monache venne ordinato dal governo centrale di lasciare Yarchen e tornare nei villaggi di origine entro l’estate. Quasi tutte arrivate al tempio giovanissime, costrette ad andarsene contro la loro volontà, molte di loro, alcune anche piuttosto anziane, furono costrette a partire verso luoghi che alcune non vedevano da anni e nei quali spesso non avevano più legami affettivi.

Le monache adempirono anche questa volta agli ordini in silenzio, come raccomandato loro dai guru del monastero, per proteggere la struttura da eventuali ritorsioni. Nel finale del documentario il regista segue una giovane monaca che, tornata nel suo villaggio, continua a vivere come se fosse ancora nel tempio, sperando un giorno di potervi ritornare. La ragazza passa il proprio tempo pregando e studiando e costruisce anche una capanna di fortuna, simile a quelle presenti a Yarchen.

Nell’opera il regista opta per una scelta rischiosa, che egli stesso ha confessato di aver fatto per rispetto delle protagoniste, quindi niente musica e niente commento sonoro, ci sono solamente delle didascalie e le voci che si ascoltano sono quelle delle protagoniste di questo affascinante viaggio, le monache, con loro ci aspetta un luogo lontano ed impervio, con un paesaggio mozzafiato ma una antropizzazione quasi impossibile.

Per quanto l’opinione del regista in merito all’annosa ‘questione tibetana’ sembri chiara per lunghi tratti, non vi è mai una critica diretta nei confronti del governo cinese, sarebbe stato d’altro canto impossibile, in quel caso, sfuggire alla censura cinese, va comunque osservato che l’esodo delle monache dal monastero di Yarchen, così come da altre strutture religiose tibetane, fu tutt’altro che indolore per chi ne fu coinvolto, chi si dimostrò poco incline ad obbedire alle richieste del governo venne imprigionato in ‘centri di rieducazione’ e non mancarono segnalazioni di violenze, anche sessuali, e torture.

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Hannibal the Cannibal

Il mio nome è Cristiano, alias Hannibal the Cannibal, sono cresciuto girovagando con la famiglia al seguito di mio padre, che si spostava molto per lavoro, ho seguito le sue orme lavorando alcuni anni in Nord Africa. Nel nuovo millennio sono tornato 'a casa' ed oggi sono lead programmer in una azienda che crea software gestionali. Amo tutto il cinema ma sono attratto in modo particolare dal cinema 'di genere' e da tutto ciò che è di nicchia.