VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES

VIVERE E MORIRE A LOS ANGELES

Vivere e morire a Los Angeles i cinenauti recensioni film serie tv cinema

GENERE:         thriller, azione

ANNO:             1985

PAESE:            USA

DURATA:         116 minuti

REGIA:             William Friedkin

CAST:               Willem Dafoe, William Petersen, John Pankow, John Turturro, Debra Feuer, Dean Stockwell

Fautore di un cinema scolpito con la perizia dell'artigiano e la radicalità di una passione inesausta, William Friedkin è stato capace, tra trionfi abbacinanti e cadute fragorose, di lasciare comunque un segno indelebile; lo celebriamo, a pochi mesi dalla sua scomparsa, parlando in particolare di Vivere E Morire A Los Angeles, vertice e punto di non ritorno del poliziesco/noir, forse l'opera che, con la sua essenza anarchica e politicamente scorretta, lo rappresenta più compiutamente.

Chi è stato davvero William Friedkin?

Il regista che ha esordito con un documentario su un uomo di colore condannato a morte (The People Vs Paul Crump, 1962), facendone riaprire il caso, e poi successivamente ha girato un film a favore della pena capitale (Rampage/Assassino Senza Colpa?, 1987); il regista che ha prodotto la prima pellicola in assoluto a trattare il tema dell’omosessualità ad Hollywood (il notevole The Boys In The Band/Festa Per Il Compleanno Del Caro Amico Harold del 1970, tratto dalla piece teatrale di Mart Crowley) ma anche quello finito sul “rogo” delle associazioni gay una decina di anni dopo con l’accusa di aver dato una visione distorta e omofoba del loro mondo nel pur straordinario Cruising.

Il regista che ha sbancato gli Oscar e i botteghini con un poliziesco “sporco” e stradaiolo, innovando profondamente il genere (The French Connection/Il Braccio Violento Della Legge, 1971), ripetendosi poi un paio di anni dopo con un horror a carattere religioso capace di scioccare l’intero pianeta (naturalmente L’Esorcista), ma anche il responsabile di flop clamorosi come quello di Sorcerer del 1977, personale rielaborazione del romanzo Il Salario Della Paura di Georges Arnaud, già portato sullo schermo nel 1953 col titolo Vite Vendute da Henry-Georges Clouzot (va detto però che il film è stato col tempo ampiamente rivalutato ed è oggi considerato uno dei suoi più significativi); il regista capace di scoprire il lato oscuro di un attore sino ad allora “tarato” perlopiù su commediole melense come Matthew McConaughey (nel divertentissimo e graffiante Killer Joe del 2011) e poi, superati gli ottanta, di tornare a flirtare col maligno volando a Roma per riprendere un vero esorcismo che appare però più farlocco di quello del suo film più famoso (The Devil And Father Amorth, 2017); e si potrebbe andare avanti ancora per molto.

Insomma William Friedkin è stato tante cose, magari anche piuttosto contraddittorie tra loro, ma soprattutto un uomo di cinema che è andato avanti per la sua strada con un afflato viscerale per il proprio lavoro, sempre considerandosi un mestierante e mai un autore (pur essendolo, nei fatti, molto più di tanti altri), fedele al motto di Samuel Beckett col quale ha voluto concludere la sua bellissima autobiografia, Il Buio E La Luce, pubblicata in Italia da Bompiani: “Non ho ancora girato il mio Quarto Potere, ma ho ancora del lavoro da fare. Quanto, non lo so: ma mi ci appassiono. Forse fallirò ancora. Forse la prossima volta fallirò meglio.”

Il fallimento dunque, un concetto che al Friedkin della metà degli anni ottanta doveva apparire sinistramente familiare: appena un decennio dopo essere stato “the next big thing” del cinema americano infatti, complici alcuni rovesci dettati anche dalla propria hybris, si era ritrovato ai margini delle grosse produzioni e in cerca di un buon soggetto per rilanciare finalmente la carriera; l’occasione arriva quando gli capita sottomano un libro dell’ex agente dei servizi segreti Gerald Petievich (che chiamerà poi a bordo come consulente) intitolato To Live And Die In L.A.: la trama verte sulla caccia senza quartiere di due federali ad un inafferrabile falsario responsabile dell’uccisione del partner anziano di uno di loro, i cui ingredienti, con le parole di Friedkin, sono “…ossessione, paranoia, tradimento, il sottile discrimine tra poliziotto e criminale: c’erano tutti gli elementi del classico film noir”.

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Il cineasta di Chicago, in realtà, ha in mente un “trattamento” che non sia affatto classico: innanzitutto, contrariamente agli stilemi del genere che richiedono ambientazioni notturne e fumose, decide di filmare la città degli angeli come “una terra di nessuno cinica e violenta, sotto un sole bruciante”, scegliendo location perlopiù periferiche e poco conosciute dal grande pubblico; per far questo, si rivolge al direttore della fotografia olandese Robby Müller, famoso per il suo sodalizio con Wim Wenders, del quale aveva in particolare apprezzato l’uso dei cromatismi in Paris, Texas. In secondo luogo mette da parte l’esteriorità virile del Braccio Violento Della Legge, caratterizzando i personaggi principali con uno stile unisex tipico dell’epoca e facendoli muovere al ritmo delle note elettroniche e della voce allusiva del gruppo new wave-postpunk inglese Wang Chung; di conseguenza Friedkin, non solo per questioni di budget ma anche alla ricerca di facce e corpi adatti al “mood” della pellicola, opta per attori giovani e semisconosciuti (l’unico “nome” è quello di Dean Stockwell nella parte di un losco avvocato), avviandoli ad una carriera luminosa: nei panni del protagonista Richard Chance scrittura il trentenne William Petersen – scovato in Canada mentre recitava Kowalski in Un Tram Chiamato Desiderio -, il quale, per la parte del suo “gemello” John Vukovich, propone al regista l’amico John Pankow, altro performer teatrale di Chicago; il ruolo del falsario Eric “Rick” Masters viene invece assegnato a Willem Dafoe, scelto praticamente d’impeto dopo aver osservato il suo volto particolare; detto della presenza, in comparsate minori, di altri interpreti che lasceranno un segno in futuro come John Turturro e Robert Downey Jr., non va dimenticato un comparto femminile che comprende, come magnetiche presenze principali, Darlanne Fluegel (la spogliarellista Ruth, informatrice di Chance) e Debra Feuer (l’androgina Blanca Torres, amante di Masters).

Film di doppi, che riflette sulla contagiosità del male (arrivando, per vari gradi di abiezione, ad un climax finale di una cattiveria rara) e sulla riproducibilità della creazione (se un falsario è anche un artista un cineasta è perciò il principe dei falsari, sembra suggerire Friedkin), Vivere E Morire A Los Angeles riesce mirabilmente a tenere insieme, attraverso lampi di cinema sensazionali, un’anima cupa, frenetica, disperata con una più sottilmente ambigua, tratteggiando individui tormentati che si muovono con l’istinto delle belve feroci in una giungla urbana spietata; basti soltanto vedere come Friedkin ci presenta i due antagonisti: il “buono” (in questo caso sono doverose molte virgolette…) irrompe gettandosi da un ponte legato ad una fune sottile, evocando un criptico ma nemmeno troppo velato desiderio di autodistruzione – nessuna “chance” di rimanere vivo, verrebbe da dire riferendosi al suo nome, difatti il regista accompagna con un timer i suoi spostamenti, quasi in un conto alla rovescia, e, con un’altra grandissima intuizione, lo liquida prima del termine in un modo che lascia basiti… -, il “cattivo maestro” Master(s) lo fa con una sequenza di montaggio da antologia dove viene illustrata, con dovizia di particolari, la stampa dei dollari falsi (resa possibile, nel suo estremo realismo, grazie alla consulenza di veri professionisti del ramo; l’aneddotica inerente al set racconta anche che un po’ di quei biglietti finirino nelle tasche del figlio di un membro della troupe, il quale andò a spenderli non accorgendosi però che erano impressi su un solo lato; cosa finì così all’attenzione dell’F.B.I., ma dopo qualche sudore freddo l’equivoco venne chiarito).

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La camminata nervosa e sinuosa di Petersen, il carisma allo stesso tempo angelico e demoniaco di Dafoe, i dialoghi fatti di frasi secche e brutali, un senso di “fluidità” e lubricità sessuale, legato a doppio filo alla corruzione morale, che si espande dentro l’aria torrida e marcia della megalopoli, il rubare soldi veri per comprare soldi falsi come metafora di un’America reaganiana (nell’incipit, che Friedkin girò solo perchè gli Wang Chung, contravvenendo a un suo diktat, gli portarono un pezzo con lo stesso titolo del film, Chance e il suo collega prossimo alla pensione Hart sono in servizio di scorta al presidente e sventano l’attentato di un terrorista islamico…) feticista del business e iperpompata dal suo vuoto edonismo, aspetti propedeutici ad un cammino senza ritorno verso le “bolle” da finanza speculativa, tutto in Vivere E Morire A Los Angeles sembra una costante corsa contromano sul ciglio della disfatta, come quella immortalata in uno degli inseguimenti più clamorosi dell’intera storia del cinema (questo tipo di sequenze erano notoriamente uno dei cavalli di battaglia del regista – ricordiamo quella mitica nel capolavoro del 1971 filmata, stante il rifiuto dei cameramen desiderosi di tornare a casa sulle loro gambe, direttamente da lui stesso in presa diretta mentre l’auto era lanciata all’impazzata nel traffico di New York… – ma le difficoltà anche stavolta non tardarono a palesarsi: nonostante la presenza sul set di Buddy Joe Hooker, uno dei migliori stuntman di Hollywood, Friedkin ricevette infatti il rifiuto di Müller, non convinto della fattibilità della cosa sia in termini di esposizione alla luce che di sicurezza; senza darsi minimamente per vinto, chiamò a sostituirlo, esclusivamente per questo specifico segmento, il giovane operatore Bob Yeoman, riuscendo così a portare a casa un risultato stupefacente e a superare il sé stesso di quattordici anni prima come desiderato…).

Vivere E Morire A Los Angeles non è soltanto – insieme a Manhunter di Michael Mann dell’anno successivo, col quale condivide l’attore protagonista – il film manifesto per eccellenza degli anni ottanta (curiosamente esiste da tempo una diceria secondo la quale lo stesso Mann avrebbe al tempo citato Friedkin per plagio, ritenendo Vivere E Morire A Los Angeles troppo “ricalcato” sulla sua serie cult Miami Vice; la cosa però è stata smentita da quest’ultimo, secondo il quale i due sono sempre stati buoni amici essendo oltretutto entrambi di Chicago), ma anche in un certo senso il poliziesco definitivo poiché reinterpreta l’archetipico noir metropolitano alla luce di una sensibilità prettamente “New Hollywood”, donandogli al contempo una stilizzazione postmoderna che anticipa ad esempio gli esperimenti lynchiani di pellicole come Velluto Blu o Cuore Selvaggio (dove la testa di Dafoe – di nuovo più luciferino che mai – “esplode” come qui fa quella di Petersen, in una corrispondenza che sa di omaggio esplicito) e il pulp tarantiniano, in un’onda lunga che arriva sino a contemporanei come Nicolas Winding Refn (si veda soprattutto Drive dove i riferimenti sono lampanti), risultando forse, a conti fatti, e pur essendo meno celebrato e ricordato di altre sue opere, l’autentico zenit della carriera di un maestro che davvero non dimenticheremo.

Anton Chigurh

Mi chiamo Mattia, alias Anton Chigurh, classe 1975, ho fatto studi classici e sono orgogliosamente spezzino; cosa chiedo ad un film o ad una serie tv? Di farmi riflettere, di inquietarmi, di lasciarmi a bocca aperta, di divertirmi... Per sapere dove trovo tutto questo, leggete le mie recensioni su I Cinenauti!