TALK TO ME
TALK TO ME
GENERE: horror
ANNO: 2022
PAESE: Australia
DURATA: 95 minuti
REGIA: Danny Philippou, Michael Philippou
CAST: Sophie Wilde, Miranda Otto, Joe Bird, Otis Dhanji, Marcus Johnson
Non sempre puoi fidarti di chi dice di volerti dare una mano... Talk To Me, esordio nel lungometraggio dei gemelli australiani Michael e Danny Philippou, muovendosi tra coming of age, elaborazione del lutto e riflessione sul ruolo dei social nell'ambito della crisi d'identità della gioventù contemporanea rappresenta un'opera sorprendente e tutta da gustare.
Siamo ad Adelaide: non ancora ripresasi del tutto dalla morte della madre e avendo rapporti difficili col padre, Mia preferisce frequentare la casa dell’amica Jade; una sera le due si recano ad una festa insieme a Daniel, il fidanzato di Jade nonché ex di Mia, dove quest’ultima viene accolta con freddezza poiché invisa a Joss, il padrone di casa; l’evento clou è una sorta di seduta spiritica da effettuare usando una mano mummificata forse appartenuta ad una medium e della quale lo stesso Joss è venuto in possesso; il rito prevede che una persona debba stringere l’arto pronunciando le frasi “Parla con me” e “Ti lascio entrare”, permettendo così ad un’entità di manifestarsi e “possedere” il corpo di tale persona, che è anche l’unica a poterla vedere; la cosa deve necessariamente durare non più di novanta secondi poiché altrimenti l’entità prenderebbe totalmente il controllo causando grossi danni.
Mia insiste per cimentarsi, uscendone entusiasta; gli altri ragazzi, a loro volta galvanizzati, la accettano così nel loro gruppo e la sera successiva si ritrovano di nuovo da Jade per ripetere la prova; ma una serie di circostanze fanno sì che venga coinvolto Riley, il fratello minore di quest’ultima, spinto da Mia nonostante la contrarietà di molti dei presenti: stavolta però la situazione prenderà una brutta piega…
L’opera prima dei gemelli australiani Danny e Michael Philippou, attivi da anni come youtuber e già partecipi alla produzione di quel Babadook divenuto da subito un piccolo cult, si inserisce in un filone tracciato da registi come appunto Jennifer Kent, Ari Aster e David Robert Mitchell, capaci di rivitalizzare l’horror partendo da topoi collaudati ma reinterpretandoli con gusto e personalità.
Talk To Me ci porta subito “in medias res” con un bel piano sequenza ambientato ad una festa (un incipit appunto molto “asteriano”, andando a citare un passaggio clou di Hereditary ed apparentandosi concettualmente all’impressionante prologo di Midsommar) al cui climax troviamo uno scoppio di violenza apparentemente gratuita seppure forse indotta da qualche abuso o condizione psicologica borderline (il significato di tale incipit lo capiremo in seguito, anche se in realtà non ci verranno date molte spiegazioni del retroterra da cui nasce il tutto: questo contribuisce, meritoriamente, ad aumentare un certo alone di mistero che il film mantiene intatto sino alla sua conclusione, ed è sicuramente anche funzionale a lasciare materiale per un prequel che pare i due abbiano già messo in cantiere); da qui si dipana la storia di Mia (la brava Sophie Wilde), che è essenzialmente una vicenda di elaborazione di una grave perdita (di nuovo come in Aster e nella Kent), nella fattispecie la morte della madre, forse autrice di un gesto volontario o forse no; ed ecco, nei giochi di fuoco-fuori fuoco a sottolineare la dissonanza della ragazza rispetto al mondo che la circonda e questa sua incapacità ad accordarvisi di nuovo (il sogno di essere davanti allo specchio e non vedere il proprio riflesso…), i primi tocchi di una regia mai sopra le righe ma molto attenta a restituire in special modo gli stati d’animo cangianti dei protagonisti.
Ben presto infatti i Philippou allargano la prospettiva ad un mondo adolescenziale contemporaneo in piena crisi d’identità e che per questo si spinge consapevolmente (o meno…) al limite e oltre (le cronache degli ultimi tempi ci hanno raccontato di sfide assurde dalle conseguenze letali) alla ricerca di un riconoscimento pubblico (gli autori, cresciuti in ambito social, conoscono alla perfezione le dinamiche che tratteggiano all’interno della pellicola): la mano attraverso la quale si trasmette la possessione (idea che riecheggia It Follows ma ha i suoi prodromi nel J-Horror: si vedano tra gli altri ad esempio Cure e Kairo-Pulse di Kyioshi Kurosawa) e i cellulari “spianati” a riprendere ogni attimo del “gioco” pericoloso per poi “condividerlo” divengono allora metafora e plastica rappresentazione del grido di aiuto e del bisogno di comprensione di un’intera generazione, istanze che faticano ad essere recepite non solo dalle istituzione ma anche dalle persone più prossime – siano esse figure parentali o amicali -, le quali si rivelano spesso meschine e superficiali nei rapporti interpersonali, inducendo così i giovani a rifugiarsi in un nichilismo che sovente sfocia nell’autolesionismo.
Mia sembra aver trovato una sorta di seconda famiglia che possa fare le veci di un padre che si dimostra incapace di comunicare con lei nella sfera più intima (per dipanare con chiarezza il nodo del possibile suicidio e superare così quel trauma), ma il suo si rivela un percorso tutt’altro che catartico; lungi dallo stereotipo dell’eroina o “final girl” che dir si voglia, il personaggio assume aspetti via via sempre più contraddittori ed oscuri, andando incontro ad un epilogo per niente buonista: qui risiede l’elemento che eleva ulteriormente Talk To Me rispetto a molte produzioni di genere stereotipate e dimenticabili.
Ma non solo, poiché i Philippou, lungi dall’affidarsi al vieto espediente dell’accumulo di risaputi jumpscares, puntano con intelligenza sull’atmosfera attraverso una fotografia livida e cupa intervallata da pochi squarci più tenui e solari ed un sonoro che evita la ridondanza per calibrarsi su momenti topici dove evoca in special modo suggestioni ancestrali di tipo acquatico (anche qui il riferimento al J-Horror pare d’obbligo), andando a valorizzare un reparto “visionario” (le apparizioni delle varie entità) certo abbastanza convenzionale ma dosato con efficacia e assestando al momento giusto due o tre fendenti (si veda ad esempio l’impressionante “autodemolizione” di Riley) perfettamente funzionali all’impianto drammaturgico.
Talk To Me, pur non potendosi definire un film rivoluzionario, mantiene una compattezza ed un’adesione all’idea di fondo rimarchevoli, risultando così una variazione sul tema svolta con notevole classe; parliamo, in definitiva, di un’opera già “adulta” – nonostante sia stata concepita da trentenni e faccia riferimento prettamente ad un universo giovanile -, ascrivibile sì al genere horror – del quale rappresenta uno dei migliori esiti degli ultimi anni – ma capace anche di sfrondarlo da certe banalità o facilonerie per farsi allegoria del presente: insomma se il buon giorno si vede dal mattino abbiamo trovato due nuovi autori da tenere d’occhio.