HEREDITARY
GENERE: horror
ANNO: 2018
PAESE: USA
DURATA: 126 minuti
REGIA: Ari Aster
CAST: Toni Collette, Gabriel Byrne, Alex Wolff, Milly Shapiro, Ann Dowd
Hereditary. Annie Graham pronuncia l'orazione funebre dedicata alla madre Ellen ricordandone la figura a tratti controversa e il loro rapporto non sempre facile; nella chiesa sono presenti personaggi enigmatici che fanno gesti incomprensibili, mentre al collo della defunta si intravede un monile dalla foggia particolare... Tornata a casa Annie scopre, tra gli effetti personali della madre, un biglietto criptico indirizzato a lei; comincia così ad avere delle visioni, mentre una cappa di nefasti presagi avvolge pian piano la sua famiglia: si sta forse compiendo un oscuro disegno senza che loro possano opporvisi?
Classe 1986, originario di New York, Ari Aster, dopo alcuni corti già piuttosto interessanti (in particolare quello girato per la sua tesi di laurea intitolato The Strange Thing About The Johnsons, incentrato su violenza ed incesto all’interno di una famiglia di colore) debutta nel lungometraggio con un film destinato a diventare un punto di riferimento per l’horror contemporaneo.
Basato su alcune vicende personali (un periodo talmente fitto di eventi negativi da portare il regista e la sua famiglia a pensare di essere vittime di una maledizione) e memore di alcuni classici del “perturbante” come Carrie, Don’t Look Now e soprattutto Rosemary’s Baby (ma anche, a sentire Ari Aster, di un dramma familiare come Gente Comune di Robert Redford), Hereditary riesce però ad elevarsi dal mero esercizio citazionista e derivativo grazie alla personalità del suo realizzatore, che unisce ad una messa in scena di grandissimo pregio – quasi kubrickiana nell’uso degli spazi e della geometricità dei movimenti di macchina, con una fotografia splendida soprattutto negli interni – una scrittura che si prende i suoi tempi, inoculando l’inquietudine sottopelle e centellinando scene madri e jumpscare al minimo indispensabile, preferendo giocare sulle psicologie dei personaggi e lavorando su rimandi sonori e visivi per far breccia nella mente dello spettatore.
La pellicola ha uno spartito complesso e leggibile a più livelli, dove il dramma e l’orrore puro si compenetrano e si sostengono a vicenda; Ari Aster parla di elaborazione del lutto, di malattia mentale, di legami familiari disfunzionali e come tali portatori di tare destinate a riverberarsi attraverso le generazioni, dei fardelli della genitorialità, del proliferare di sedicenti gruppi di ascolto quando non di vere e proprie sette (fenomeno molto presente nella società americana) che plagiano le persone sfruttandone i momenti di fragilità – argomenti che riproporrà, immergendoli in un contesto folkpagano, nella bellissima opera seconda Midsommar – ma anche di dannazione e possessione, lasciando quindi aperta la porta al dubbio: quello che vediamo è il costrutto di una mente schizofrenica o l’azione di un demone implacabile?
Il finale sembra prendere una posizione piuttosto chiara nel merito, ma ciò che conta sono le due ore abbondanti di tensione attraverso le quali siamo giunti sino lì, perchè quello che stupisce di questo talentuosissimo regista è la capacità di creare macrosequenze di grande impatto emotivo e ineccepibile logica formale; ne voglio citare due su tutte: l’incipit, con la camera che inquadra una capanna all’esterno della finestra (il rifugio di Charlie) e poi in piano sequenza si insinua dentro il modellino di una stanza da letto (i modellini rappresentano l’orizzonte paranoico di Annie, la loro creatrice); ma improvvisamente scopriamo di essere in una stanza reale della casa, quando il padre entra dalla porta per svegliare il figlio: un gioco metatestuale che ha del sublime e illustra perfettamente la condizione di una famiglia che è come incastrata in un loop di scatole cinesi; tutta la parte della morte di Charlie, dalla festa sino al ritorno a casa, uno dei più grandi momenti di cinema tout court degli ultimi anni (quasi bissato dallo stesso Ari Aster con la devastante ricognizione di un omicidio-suicidio con la quale si apre Midsommar).
Da segnalare anche l’eccellente direzione degli attori: Toni Collette è sugli scudi nel dare forma all’escalation delirante di Annie Graham, mentre Gabriel Byrne è il suo misurato e dimesso contraltare nei panni del marito Steve; ottima anche la prova di Alex Wolff (il figlio Peter), che si fa carico di alcuni dei momenti più intrisi di pathos del film; ma la vera carta vincente del cast è rappresentata da Milly Shapiro, la “bambolina” Charlie dallo sguardo vitreo (senza contare il rumore gutturale che emette ossessivamente schioccando la lingua sul palato) che procura più di un brivido ad ogni apparizione…
Hereditary è, in definitiva, lo stupefacente esordio di quello che sarà senza tema di smentita uno degli autori di punta degli anni a venire.