ADAGIO
ADAGIO
GENERE: poliziesco, thriller
ANNO: 2023
PAESE: Italia
DURATA: 127 minuti
REGIA: Stefano Sollima
CAST: Pierfrancesco Favino, Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini
Opera al nero che affronta a passo lento la decadenza vagheggiando la rinascita, con Adagio Stefano Sollima chiude il suo personale romanzo criminale romano confermandosi tra i massimi “filologi” della tradizione del genere italico.
Siamo in una Roma canicolare e vagamente distopica: Vasco, Bruno e Massimo, tre carabinieri corrotti, infiltrano il sedicenne Manuel ad una festa esclusiva a base di cocaina e sesso gay; il ragazzo ha il compito di scattare delle fotografie ad un pezzo grosso della politica lì presente, le quali serviranno per ricattarlo e farlo dimettere dai suoi incarichi; qualcosa però va storto e Manuel fugge lasciando i committenti senza il materiale richiesto; si innesca così una caccia all’uomo che finirà per coinvolgere anche vecchi esponenti della Banda della Magliana…
Con adagio si intende un movimento musicale molto calmo, una via di mezzo tra l’andante e il largo: Stefano Sollima sceglie questo ritmo per eseguire la nuova partitura con la quale intende porre fine ad un’ideale trilogia che ha preso le mosse dalla serie cult Romanzo Criminale ed è transitata poi per il lungometraggio Suburra, abbracciando giovinezza, maturità e senescenza del sottobosco malavitoso romano e delle sue aderenze con i poteri più disparati.
Nel film del 2015, incentrato sulle manovre per accaparrarsi un terreno edificabile ad Ostia, si metteva molta carne al fuoco scegliendo un tipo di rappresentazione piuttosto iperrealista; in Adagio Sollima recupera l’idea dell’apocalisse prossima ventura (là la città era immersa dentro una pioggia incessante a mo’ di diluvio universale, qui invece è cinta d’assedio dagli incendi e spenta da continui blackout elettrici – il film inizia con un volo notturno di elicotteri che si stagliano su un cielo cupo dall’orizzonte arancio: sin troppo facili appaiono i rimandi alla Los Angeles filmata da Michael Mann, per quanto a me sia tornato alla mente anche l’incipit del capolavoro di Robert Altman Short Cuts -) ma stavolta la declina in un approccio più materico: le “stelle” della Magliana, ormai vecchie e minate nel fisico, stanno tramontando mestamente, così Sollima chiede ai propri attori un lavoro mimetico sui corpi (colpisce in special modo un quasi irriconoscibile Pierfrancesco Favino glabro e dalla parlata strascicata nei panni del Cammello, anche se non sono da meno il Polniuman cieco di Valerio Mastandrea – nonostante un’apparizione ridotta a poco più di un cameo – e il Daytona in odore di demenza senile di Toni Servillo) e li colloca, grazie ad una fotografia magistrale di Paolo Carnera, in mezzo alle ombre dei casermoni di periferia tangenti l’infinito dedalo di raccordi della capitale (l’intento era proprio quello, nelle parole del regista, di rappresentare “la Roma delle strade, della viabilità”), inquadrandoli a distanza ravvicinata, in modo da coglierne financo gli spasmi muscolari o gli accenni di sudorazione; sono morti che camminano, insomma, come li appella con fare sprezzante il vero antagonista e punto chiave del film – un Adriano Giannini mai così bravo che dona al suo carabiniere infedele Vasco un palpabile retrogusto animalesco e luciferino, tanto da trascinare con sé in un baratro di abiezione sempre più profondo i due colleghi Bruno (l’ottimo Francesco Di Leva, che qui replica un po’ il personaggio che aveva in L’Ultima Notte Di Amore) e Massimo (l’altrettanto in palla Francesco Adorni) -, ma che vogliono morire a modo loro, e poi forse molto ci sono ma un po’ ci fanno anche (in due delle sequenze migliori della pellicola, Polniuman dimostra di avere ancora il grilletto facile e centra, nel buio dei suoi occhi ma anche in quello della sua stanza, un imprudente Vasco, mentre Daytona sembra tornare per un attimo a ruggire come ai bei tempi quando punta un coltello alla gola di quest’ultimo dentro un’auto che scivola lentamente e pericolosamente verso un commissariato di polizia…).
Il vero cuore di quest’opera non si trova però in un canovaccio risaputo (in sostanza, un ricatto ad un ministro con qualche vizietto inconfessabile) ma, di nuovo con le parole di Sollima, nel suo lato intimista e sentimentale: Adagio è infatti un film di padri e figli (a cominciare dalle maestranze: inutile sottolineare da quale linea di sangue provengano Sollima, Giannini e anche l’aiuto regista Roy Bava…), sia in un senso retrivo (le colpe degli uni che fatalmente sembrano dover ricadere sugli altri) ma anche infine catartico; Manuel (che Gianmarco Franchini disegna come un “pischello” di borgata tutto trap e fragilità, immerso giocoforza in un ambiente borderline) ha un genitore assente (ormai spesso persino a sé stesso) ma ne trova altri due putativi, in special modo il Cammello, che rivede in lui l’erede perito sul “campo” (si legga una rapina finita male…); ecco allora che dall’elaborazione di una perdita e di un senso di colpa divorante, esperita immolandosi come un antieroe tragico e romantico allo stesso tempo, si apre uno scenario di tenue speranza per le nuove generazioni, lasciate orfane a ricominciare un qualcosa che non sia solo sostanziato sul denaro e sulla sopraffazione (il di qua e il di là, come dice la moglie del vecchio boss malato terminale: Sollima chiude infatti i conti con una straordinaria macrosequenza ambientata alla stazione Tiburtina, riaprendoli poi in una questura brulicante dove però tre ragazzi sembrano potersi estraniare dal contesto per rivendicare una loro alterità, verrebbe quasi da dire una loro purezza); ancora lo sguardo indagatore e spaesato dei più giovani, dunque, come in L’Ultima Notte Di Amore, l’altro gioiello noir di questo anno che va a concludersi, il quale gira e rigira si palesa di nuovo nella nostra prospettiva poichè con Adagio ha svariati punti in comune, a cominciare da un paio di attori protagonisti e continuando con un mood dolente e crepuscolare, qui corroborato anche dalle note dei Subsonica.
Ulteriore conferma della statura di Stefano Sollima come erede della grande tradizione di genere, Adagio è, senza tanti giri di parole, il cinema italiano che vorremmo sempre vedere: tutto il resto, come canta il Califfo sui titoli di coda, è noia.