CRIMES OF THE FUTURE
CRIMES OF THE FUTURE
GENERE: thriller, drammatico
ANNO: 2012
PAESE: USA
DURATA: 100 minuti
REGIA: David Cronenberg
CAST: Kristen Stewart, Viggo Mortensen, Léa Seydoux, Scott Speedman, Lihi Kornowski
C’era grande attesa per il ritorno al lungometraggio di David Cronenberg dopo ben otto anni di assenza, rinfocolata dal fatto che il film si annunciava come un ulteriore tassello di quel percorso all’interno del cosiddetto “body horror” che il genio di Toronto porta avanti, con qualche pausa, sin dalla metà degli anni settanta.
Una donna uccide il proprio figlio dopo averlo scoperto a cibarsi di un secchio di plastica, poi chiama il marito perchè si occupi del corpo e si consegna alla polizia…
Il progresso ha reso gli uomini ormai praticamente immuni al dolore, trasformando al contempo alcune loro funzioni vitali; seguiamo le vicende di due famosi artisti, Saul Tenser e la compagna Caprice: lui sviluppa continuamente all’interno del proprio corpo nuovi organi che la donna tatua e poi rimuove chirurgicamente durante spettacoli teorici molto seguiti ed apprezzati; un giorno Lang Dotrice, padre del bambino ucciso, che è il leader di una misteriosa organizzazione, li avvicina per proporre loro una performance sconvolgente…
C’era grande attesa per il ritorno al lungometraggio di David Cronenberg dopo ben otto anni di assenza, rinfocolata dal fatto che il film si annunciava come un ulteriore tassello di quel percorso all’interno del cosiddetto “body horror” che il genio di Toronto porta avanti, con qualche pausa, sin dalla metà degli anni settanta; diciamo subito che è stata ampiamente ripagata: Crimes Of The Future (che, specifichiamo, ha lo stesso titolo del suo debutto ma non è un remake, pur condividendo un piccolo spunto in comune) è un’opera magnifica e conturbante, che offre al contempo una summa del cinema di Cronenberg ed un punto di vista sulla situazione attuale, con una finestra spalancata sul domani.
“Cari miei, vi avevo avvertiti che sarebbe andata a finire così…”, sembra dirci sornione e disilluso il vecchio David mentre su un canovaccio noir debitore di certe atmosfere “burroughsiane” (siamo in un futuro dai tratti però anacronistici – splendido il reparto scenografico curato da Dimitra Sourlantzi -, dentro un paesaggio a metà tra l’esotico e il post-apocalittico, reso ancora più cupo dalla fotografia “decolorata” di Douglas Koch, che rimanda alla Tangeri di Il Pasto Nudo – le location sono situate in Grecia -) e sostenuto da snodi di trama affini a quelli di La Promessa Dell’Assassino (ma è bene non spoilerare) rielabora alcuni capisaldi della sua poetica: eccoci di nuovo al cospetto del bisogno di sensazioni sempre più estreme, tipico di un’epoca in piena decadenza, e in particolare dell’accoppiata dolore-sesso che in Crash si esplicitava nel groviglio di lamiere degli incidenti stradali ricreati come esibizioni e nelle ferite conseguenti, e qui invece arriva all’altra faccia della sua medaglia, ovverosia la progressiva anestetizzazione, focalizzandosi su una chirurgia anch’essa declinata in forma “artistica” (l’arte quindi sempre intesa come sacrificio di sé e modulazione della propria sofferenza) ed erotizzata (“surgery is the new sex”) ormai possibile grazie allo sviluppo ulteriore di strumenti che già erano stati introdotti sin dai tempi di La Mosca, Inseparabili ed Existenz (i “sarcofagi” nei quali condurre esperimenti indicibili – non molto diversi concettualmente, peraltro, dalla limousine di Cosmopolis… -, i forcipi e i bisturi “particolari”, le “porte” a pelle dentro cui collegare dei “jack”, i joystick “viventi” ecc.).
Tutto è ossessione per la corporeità (“body is reality”, si legge nelle vecchie tv che arrivano direttamente da Videodrome), ed il concetto di “bellezza interiore” assume allora il suo significato puramente letterale (“Ho un nodulo sull’addome, che ci vedete? Picasso? Duchamp? Forse Francis Bacon?…”, fa dire ironicamente ad un personaggio, per sottolineare questo assurdo stato di cose): ci si racconta di cercare la poesia del mondo, ma questi organi interni dalle funzioni potenziate e snaturate (l’autorità preposta ad arginare tale deriva si chiama non a caso “Nuovo Vizio”, che sta per “disordine evolutivo”) racchiudono invece simbolicamente, come metastasi autoriproducentesi, la grettezza, la disperazione, la bruttezza che stanno uccidendo noi e i nostri figli, ed è possibile quindi attraverso di essi svelare una “mappa del caos” (metaforicamente affine a quella delle star nella Hollywood marcia del suo precedente film…) che ci guidi nel cuore delle tenebre (giungiamo dunque, per vie traverse, a Conrad).
Cronenberg è in questo senso il nostro anatomo patologo, poiché favorire l’inverarsi di un progetto nel quale corpo e tecnologia si possano fondere sino ad alterare la stessa struttura biologica (arrivando insomma ad agognare di “essere una macchina”, come spiega Mark O’Connell in un bel libro-inchiesta che ha questo titolo) significa abdicare alla propria umanità; chi fa questo, spinto da un cieco furore ideologico (difatti il maestro canadese ci dice che non è “un problema medico, ma politico”…), è in sostanza già morto – anche se tecnicamente respira ancora e paradossalmente anela a non morire mai -, e ad un cadavere (che è poi quello, più in generale, della nostra società) non si può fare altro che l’autopsia…
Se l’unica soluzione fosse allora quella di riuscire a darsi un vero bacio, come quelli di una volta,
ossia ritornare alla nostra intimità più istintiva e profonda? Lo si pretendeva nuovamente innovativo e profetico, lo ritroviamo invece sconfitto, catacombale e romantico (qualcuno ha storto il naso ma chi se ne frega, Cronenberg ha già detto da tempo tutto quello che c’era dire, e se la realtà sta infine a larghi passi avviandosi a coincidere con le fantasie più distopiche non resta purtroppo che prenderne atto in attesa di tempi migliori…); in forma smagliante, però, e con una grande voglia di fare di nuovo cinema, palpabile nell’eleganza e nella ricercatezza con cui concepisce ogni inquadratura (sul finale si concede addirittura un rimando alla Passione Di Giovanna D’Arco di Carl Theodor Dreyer) e nella complicità con gli attori, in particolare un Viggo Mortensen ormai suo personale “feticcio” degli anni duemila – qui interprete di un personaggio al quale il regista canadese attribuisce anche nel vestiario tratti che rimandano alla fantascienza più dark -, una Lea Seydoux che buca letteralmente lo schermo ad ogni apparizione e una Kristen Stewart dai saliscendi emotivi pronunciati, senza dimenticare la rinnovata collaborazione con un sodale di vecchia data come il compositore Howard Shore per una colonna sonora di sicuro impatto; insomma, giù il cappello di fronte a David Cronenberg, che alla soglia degli ottant’anni è capace di lasciare ancora il segno in questo modo.