LA CORTA NOTTE DELLE BAMBOLE DI VETRO
LA CORTA NOTTE DELLE BAMBOLE DI VETRO
GENERE: horror, thriller
ANNO: 1971
PAESE: Italia
DURATA: 90 minuti
REGIA: Aldo Lado
CAST: Mario Adorf, Barbara Bach, Ingrid Thulin, Jean Sorel
Scomparso lo scorso novembre a quasi novant'anni, Aldo Lado è stato un autore che, tramite un approccio colto in fase di sceneggiatura e la maestria dietro la macchina da presa, ha saputo piegare i generi ad una visione anticonformista e spesso pregna di aderenze metaforiche alla realtà sociale; lo celebriamo parlando di La Corta Notte Delle Bambole Di Vetro, folgorante esordio e in un certo modo “summa” della sua poetica.
Siamo a Praga: il giornalista americano Gregory Moore viene ritrovato apparentemente senza vita all’interno di un parco; in realtà è precipitato in uno stato catatonico rimanendo, pur impossibilitato a muoversi e a parlare, pienamente cosciente di ciò che accade intorno a lui; scavando nella sua memoria Moore ricorda che, mentre indagava insieme ad alcuni colleghi sull’improvvisa e incomprensibile scomparsa della fidanzata Mira, aveva scoperto che in un misterioso locale chiamato Club 99 si praticavano oscuri rituali…
Parlare di La Corta Notte Delle Bambole Di Vetro, opera prima del recentemente scomparso Aldo Lado – fiumano di nascita ma veneziano di adozione, già assistente alla regia di Maurizio Lucidi e soprattutto di Bernardo Bertolucci ne Il Conformista e poi autore sempre caratterizzato da grande eleganza nella concezione delle inquadrature unita all’attenzione per le temperie politiche e sociali – significa anche tornare a quelle avventure produttive così caratteristiche di un’epoca d’oro del nostro cinema che sembra distante secoli.
È la visione di un personaggio che, a causa della propria indipendenza, viene trasferito in un contesto lontano e minaccioso, agganciata a quegli umori mitteleuropei dei quali era imbevuto, a fornire a Lado l’incipit per una storia in divenire, mentre l’idea forte sulla quale reggere il plot (quella di un uomo apparentemente morto ma in realtà bloccato in una sorta di catalessi e con ancora le facoltà cerebrali intatte, quindi capace di percepire il mondo circostante) la attinge da un episodio di Hitchcock Presenta, sviluppandola però come una sorta di incubo kafkiano (non a caso il film inizialmente doveva chiamarsi Malastrana, in omaggio al quartiere praghese amato dallo straordinario scrittore) che, transitando per il giallo, sfocia in definitiva nell’apologo fantapolitico.
Il copione, una volta messo a punto, fa un po’ il giro delle sette chiese: Lado rifiuta di dirigerlo in co-regia con l’amico Lucidi, poi la palla passa ad Antonio Margheriti, il quale si dice intenzionato a produrlo a patto che venga ambientato in Grecia; ma anche in questo caso, pur dopo aver effettuato alcuni sopralluoghi, il regista si oppone risolutamente. Entra allora in gioco il produttore Enzo Doria, che si rivolge alle autorità cecoslovacche chiedendo l’autorizzazione per filmare a Praga; stante il diniego ricevuto (che Lado in seguito aggirerà con un escamotage – gli verrà dato il permesso di realizzare un fantomatico documentario, riuscendo così a soggiornare nella capitale per una settimana con gli attori e la troupe e a portare a casa alcuni esterni “rubati” qua e là… -) prova allora con i funzionari del cinema di stato jugoslavo, i quali accettano; la produzione viene dunque spostata in quel di Zagabria sotto l’egida di tale Stipe Gurdulic, il quale apre a Lado tutte le “porte” che gli consentono di lavorare in totale autonomia.
Anche l’assemblaggio del cast (che per esigenze legali doveva essere eterogeneo in quanto a nazionalità degli attori) e la scelta del titolo definitivo richiedono aggiustamenti in corsa: per il protagonista Gregory Moore Lado pensa a Terence Hill, il quale però pone come condizione di modificare la conclusione della pellicola, adducendo la motivazione di non voler morire sullo schermo; per fortuna l’autore veneziano non cede sul punto (un cambiamento di questo tipo ne avrebbe stravolto irrimediabilmente il significato, privandoci oltretutto di uno dei finali più autenticamente agghiaccianti di sempre) e ripiega sul francese Jean Sorel, il quale accetta di buon grado; ad interpretare la sua compagna Mira viene scritturata la splendida Barbara Bach, in quanto all’epoca sposata con un italiano (in seguito diventerà moglie del batterista dei Beatles Ringo Starr), mentre in altri ruoli di contorno si segnalano nomi importanti quali la “bergmaniana” Ingrid Thulin, Mario Adorf e José Quaglio.
Già detto della questione “Malastrana”, si decide infine di chiamare la pellicola “La Corta Notte Delle Farfalle” (in riferimento a quegli individui refrattari ai condizionamenti ai quali di conseguenza viene impedito di spiccare il volo); sfortuna vuole che proprio in quel periodo esca nelle sale il bel film di Duccio Tessari Una Farfalla Con Le Ali Insanguinate: insomma, troppe farfalle in giro, le quali vengono così sostituite, a manifesti già stampati, con le comunque evocative “bambole di vetro”.
Grazie anche allo splendido lavoro di notevoli maestranze come il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini (collaboratore di un altro totem come Tonino Delli Colli, e col quale Lado ebbe scontri poi appianati), la costumista Gitt Magrini (attiva sui set dei più importanti registi italiani e della nouvelle vague tra gli anni sessanta e settanta sino alla prematura scomparsa), il montatore Mario Morra (fondamentale nel costruire la struttura a flashback del film e nel raffigurare le visioni stranianti del protagonista attraverso inserti alternati di grande effetto) e non ultimo il maestro Ennio Morricone al commento musicale, Lado riesce a creare un’atmosfera plumbea, opprimente e screziata di una vena gotica e barocca, maneggiando i generi con un talento visionario non comune per sostanziare una metafora sul potere (che succhia “vampirescamente”, all’interno di rituali orgiastici, il sangue dei giovani, tenuti sotto scacco attraverso l’incentivazione smodata del desiderio – il sesso e le droghe usati come anestetici per ottundere le menti ed impedire il libero pensiero -, traendo così linfa per la propria perpetuazione eterna) e i suoi sudditi (ridotti a non vedere ciò che li circonda e li tiene sotto scacco – il personaggio del cieco -, oppure resi inoffensivi ed eliminati se mostrano segni di ribellione allo status quo – come il protagonista -) che parte dalle 120 Giornate Di Sodoma del Marchese De Sade (adattato poi a suo modo in questa chiave anche da Pier Paolo Pasolini quattro anni dopo in Salò) per transitare appunto attraverso il Kafka più alienante (quello del Processo e del Castello), e guardando, dal punto di vista cinematografico, ad un modello come il Roman Polanski “esoterico” del capolavoro Rosemary’s Baby (ma agganci suggestivi al film di Lado si possono trovare in molte pellicole successive, tra le quali vale la pena citare l’ultimo lascito del maestro Stanley Kubrick Eyes Wide Shut…).
Tutto considerato, La Corta Notte Delle Bambole Di Vetro, proprio per questa sua natura obliqua che rende anche difficile catalogarla come un’opera thriller-horror tout court (è semmai più apparentabile a certe rappresentazioni distopiche ma ancorate ad una realtà tangibile – ci riferiamo ad esempio all’inquietante ed altrettanto lucido Hanno Cambiato Faccia di Renato Farina – anch’esso del 1971 -, rilettura post-sessantottina del mito di Dracula alla luce delle discrasie della società capitalista denunciate in particolare nelle opere del grande sociologo tedesco Herbert Marcuse -) rappresenta allo stesso tempo quasi un unicum ed una pietra miliare nel panorama del cinema italico settantiano.