SUPER DARK TIMES

GENERE: thriller, drammatico
ANNO: 2017
PAESE: USA
DURATA: 100 minuti
REGIA: Kevin Phillips
CAST: Owen Campbell, Charlie Tahan, Elizabeth Cappuccino, Max Talisman, Sawyer Barth
Siamo a Kingston, nello stato di New York, intorno alla metà degli anni novanta; Zach e Josh, compagni di classe e amici per la pelle, trascorrono le giornate, come tutti i ragazzi della loro età, tra le ore di lezione ed il cazzeggio pomeridiano.
Un giorno, dopo aver trovato nella stanza del fratello maggiore di Josh, arruolato nei Marines, dell’erba e una katana (la cui iconicità all’interno della pellicola vuole forse omaggiare Kill Bill di Quentin Tarantino), decidono di andare in un bosco lì vicino per fumare e provare l’arma in compagnia di altri due ragazzi, Daryl e Charlie; una volta arrivati sul posto, però, Josh e Daryl cominciano a litigare per futili motivi e, durante la collutazione che ne segue, Josh trafigge inavvertitamente l’amico, che muore poco dopo; i ragazzi occultano il cadavere e fanno un “patto del silenzio”, ma la vicenda cambierà per sempre le loro vite…

Che cos’è l’adolescenza? Un mix di slanci, incoscienza, paure, sensi di colpa e di inadeguatezza, un qualcosa di paragonabile al dover metabolizzare un omicidio colposo, sembra rispondere Kevin Phillips con questa sua opera di esordio.
Va detto però che Super Dark Times (titolo quanto mai azzeccato, poiché riferibile sia ai tormenti della transizione verso l’età adulta che, in generale, ad un’epoca storica), produzione indipendente ora disponibile su Netflix, non è propriamente inseribile nel filone del “revival” molto in voga negli ultimi tempi; ci sono, è vero, in partenza, tutti i clichè del genere, dalle corse in bicicletta nei viali deserti al fascino del “proibito”, dalle pulsioni sessuali ai gadget obsoleti ecc., però il film ben presto prende un’altra strada, più tragica che nostalgica, come espressamente dichiarato dal regista.
Ce lo dice già un incipit crudo e potente, quasi lynchiano, a prima vista slegato dal contesto ma in realtà pienamente rivelatore: un cervo nottetempo si è introdotto nella scuola sfondando un vetro e il mattino dopo viene ritrovato agonizzante in una pozza di sangue; i poliziotti intervenuti fanno allontanare tutti, poi uno di loro lo finisce a scarpate…
Così, quando la scure del destino si abbatte sui protagonisti, il racconto di formazione si frammenta in una dimensione psichica, e l’insieme diventa man mano sempre più cupo e orrorifico; ad una quotidianità che sembra immersa in una piattezza atavica, nemmeno scalfita dalla “coolness” incarnata dalla presidenza Clinton (siamo nei pressi del suo secondo mandato, come si evince dai passaggi televisivi), cominciano a fare da contraltare gli incubi di Zach, un eterno ritorno al bosco maledetto (dove Kevin Phillips, a un certo punto, cita addirittura una sequenza di Antichrist di Lars Von Trier) che non trova sponda e conforto nei “complici”, apparentemente più freddi e risoluti (un po’ di sostegno arriva solo dall’ignara madre, unica figura genitoriale di un certo rilievo.
I padri, al contrario, nel film sono del tutto assenti); ma c’è chi riesce a fare i conti con la sua parte oscura tornando faticosamente alla razionalità e chi invece se ne lascia completamente soggiogare: si schiude così un affascinante gioco di specchi, mediato dalla presenza femminile (sarà Allison, “principessina” contesa, ad innescare la sarabanda finale), che, traghettando Super Dark Times dalle parti dello slasher, chiama in causa orgoglio virile, spirito competitivo, empatia nei confronti dell’altro e introduce una possibile riflessione che parte dal fenomeno della violenza giovanile (presente in misura preoccupante nella società americana) per arrivare sino alla figura del serial killer, centrale, soprattutto grazie al cinema, nella cultura pop degli ultimi trent’anni.
Avvalendosi di una scrittura che rimescola con abilità ingredienti collaudati, di un comparto tecnico di tutto rispetto (una bella fotografia che rende perfettamente il parallelismo tra l’atmosfera lugubre dei paesaggi esteriori e di quelli interiori, un montaggio di precisione millimetrica e un sonoro penetrante – da segnalare anche l’uso di pezzi di band della scena punk hardcore-new wave come Black Flag, Bad Religion e Wire – ) e di interpreti sorprendentemente efficaci (gli sguardi dei due protagonisti Owen Campbell e Charlie Tahan non si dimenticano facilmente, così come la bellezza “acqua e sapone” di Elizabeth Cappuccino), Kevin Phillips riesce a creare una pellicola conturbante e a suo modo originale, che non scivola mai neanche per un momento nella gratuità dell’effettaccio splatter (è piuttosto la gestione di scene “ordinarie” come quella di un bacio mancato tra Zach ed Allison a fare la differenza e a indicare la cifra di un talento cristallino), mantenendo una padronanza stilistica degna di autori ben più blasonati.
Cosa resta, dunque, alla fine di questo percorso?
Qualche cicatrice, che il tempo provvederà a far rimarginare; ma anche, soprattutto, un gioiello di film e un altro regista del quale sicuramente sentiremo di nuovo parlare.