RIPLEY

RIPLEY

Ripley i cinenauti recensioni film serie tv cinema
Ripley i cinenauti recensioni film serie tv cinema

GENERE:                  thriller, thriller psicologico, drammatico

ANNO:                      2024

PAESE:                     USA

DURATA:                  8 episodi 

DA UN’IDEA DI:        Steven Zaillian e Patricia Highsmith

CAST:                        Andrew Scott, Dakota Fanning, Johnny Flynn, Francesca Romana Bergamo, Renato Solpietro

Concepito e realizzato con sublime maestria da Steven Zaillian, Ripley è forse l'adattamento definitivo del primo romanzo dedicato da Patricia Highsmith a questo personaggio, con un insinuante e sinistro Andrew Scott che si muove tra le luci e le ombre di una penisola mai resa sullo schermo in modo così conturbante.

Siamo a New York nel 1961: Tom Ripley, enigmatico individuo che sbarca il lunario ricorrendo a piccole truffe, viene contattato da Herbert Greenleaf, facoltoso industriale della nautica, affinchè, facendo leva sulla loro conoscenza pregressa, si rechi in Italia per convincere il figlio Dickie a tornare in patria ad occuparsi dell’impresa di famiglia; sulle prime Ripley rimane perplesso poiché ha ricordi vaghi e piuttosto lontani di Dickie, ma poi decide di accettare l’incarico; completamente spesato da Greenleaf, parte allora per Atrani, un paesino sulla Costiera Amalfitana dove il giovane risiede insieme all’amica Marge.

Una volta rintracciato lo approccia dichiarandosi come conoscente di vecchia data, ma anche Dickie sembra non ricordarsi di lui; quasi subito però Tom gli rivela la verità, precisando di non voler interferire nella sua vita e di essere dunque intenzionato a fare ritorno a casa nel più breve tempo possibile; tuttavia, cominciando a frequentarsi, i due legano sempre di più, grazie anche alla comune passione per l’arte, e la cosa suscita la perplessità di Marge, che vede Dickie allontanarsi progressivamente da lei; perplessità che comincia ad aumentare anche in Dickie stesso quando si rende conto che Tom sembra provare una sorta di attrazione morbosa nei suoi confronti, al punto da indossare i suoi abiti ed imitare la sua postura e la sua voce; nonostante ciò, Dickie propone a Ripley un viaggio a Sanremo, con l’intenzione di chiarire definitivamente le cose tra loro; durante una gita in barca, però, accade un fatto che cambierà per sempre le vite di tutti i protagonisti.

Uscito nel 1955, Il Talento Di Mr. Ripley di Patricia Highsmith rappresenta il primo tassello di una pentalogia dedicata a questo personaggio (tra gli altri romanzi si segnala in particolare L’Amico Americano, dal quale Wim Wenders ha tratto nel 1977 una pellicola indimenticabile con Bruno Ganz e Dennis Hopper, e Liliana Cavani una più dimenticabile nel 2002 con John Malkovich – quest’ultimo ritorna in un piccolo cameo nella serie della quale ci accingiamo a parlare -); già portato sul grande schermo nel 1960 da René Clément (il bel Delitto In Pieno Sole, con Alain Delon nei panni del protagonista) e nel 1999 da Anthony Minghella nell’altrettanto riuscito film omonimo interpretato da Matt Damon (Tom Ripley), Jude Law (Dickie Greenleaf) e Gwyneth Paltrow (Marge), è stato ora trasposto in una serie tv di otto episodi al timone della quale troviamo uno sceneggiatore e regista di vaglia come Steven Zaillian, già premio Oscar per lo script di Shindler’s List.

Ripley i cinenauti recensioni film serie tv cinema

Pensata per anni nei minimi particolari, prodotta infine grazie a Showtime e successivamente acquisita da Netflix, Ripley è resa abbacinante grazie ad intuizioni peculiari nel plasmare il testo scritto e quello filmico, la principale delle quali concerne nella rielaborazione della figura del protagonista: il nuovo Tom Ripley (magnificamente impersonato da un Andrew Scott capace di restituirne tutta l’ambiguità – anche nella dissimulazione vocale e idiomatica, ragion per cui è raccomandata la visione in lingua originale, agevolata peraltro dal fatto che moltissimi dialoghi sono in italiano -, il quale è la punta di diamante di un cast eterogeneo e di grande livello che comprende tra gli altri anche Johnny Flynn nei panni di Dickie Greenleaf e Dakota Fanning in quelli della sua amica/fidanzata Marge, nonché alcuni volti nostrani come Margherita Buy nel ruolo della locataria di uno stabile romano e soprattutto un bravissimo Maurizio Lombardi in quello dell’Ispettore Pietro Ravini) non è più un giovane di bell’aspetto e dalla personalità magnetica (attributi che caratterizzano semmai in misura maggiore il suo contraltare Dickie) ma un uomo piuttosto grigio ed ordinario, di una ventina d’anni più vecchio del personaggio concepito dalla Highsmith, né particolarmente affascinante né carismatico, sostanzialmente un borderline non privo però di una certa sensibilità per il bello (e questa sarà la sua unica “connessione” sincera con Dickie, che, a sua volta, ripudiando la logica imprenditoriale del profitto alla quale lo avrebbe voluto avviare il padre, ha scelto una vita da ricco “bohemien” nel Paese che rappresenta la culla dell’arte e della cultura), il quale, quando per un caso fortuito intravvede la possibilità di essere ammesso agli agi e alla spensieratezza dei “piani alti”, dispiega l’altro suo tratto distintivo, ovverosia una mente calcolatrice al limite della paranoia (Tom Ripley, e qui sta l’attualità della sua figura, resa in modo ancor più incisivo in questa veste, è, se vogliamo, un po’ l’emblema dell’uomo postmoderno, pirandellianamente “fluido” nell’identità e bramoso di essere un vincente anche a costo di dover imboccare con consapevolezza una strada fatta di cinismo e di amoralità abissali, attraverso la quale è in grado di superare qualsiasi ostacolo si pari di fronte a sé – a proposito di corrispondenze cinefile, l’Oliver Quick di Saltburn non è forse un suo omologo? -).

Va detto che, rispetto al racconto originario, è stato ridimensionato il coté omoerotico – una volta insinuatosi come un tarlo tra le pieghe del rapporto, già un po’ irrisolto di per sé, tra Dickie e Marge, questo aspetto viene abilmente strumentalizzato da un Ripley che, in tutta evidenza, non ha interessi legati alla sfera sessuale ma è esclusivamente mosso dall’arrivismo e dall’avidità di denaro e di beni materiali -; Tom, altro colpo d’ala di Zaillan, finisce piuttosto per immedesimarsi nella figura di Caravaggio (alla quale lo “inizia” Dickie), genio maledetto per eccellenza, i cui chiaroscuri pittorici rispecchiano il suo animo camaleontico e manipolatorio di artista del crimine.

Agganciandoci a quest’ultima prospettiva, veniamo all’altro punto cruciale del discorso, ovverosia una regia che sembra fare di ogni inquadratura un quadro a sé stante – ma rifuggendo, e qui sta anche la sua grandezza, la trappola di quell’effetto “cartolina” così abusato quando si tratta di ritrarre il nostro Paese, soprattutto da parte di produzioni anglosassoni -, e altresì capace, oltre che di una ricostruzione storica filologicamente inappuntabile fin in dettagli minimi quasi subliminali – si veda ad esempio la sequenza nella quale fa capolino un lembo di giornale dove si allude al famoso caso Fenaroli… -, di citare ed omaggiare in modo colto e virtuosistico, grazie allo splendido bianco e nero di Robert Elswit (a sua volta premio Oscar per Il Petroliere di Paul Thomas Anderson) e al montaggio calibratissimo ed allusivo di Joshua Raymond Lee e David O. Rogers, uno spettro di influenze che vanno dal neorealismo all’hard boiled anni quaranta passando per la suspence di matrice hitchcockiana sino a un certo tipo di giallo all’italiana (penso in special modo a film archetipici come Un Maledetto Imbroglio di Pietro Germi del 1959 e La Ragazza Che Sapeva Troppo di Mario Bava del 1963, che vengono evocati soprattutto nelle puntate capolavoro quinta e sesta ambientate a Roma).

Il mare d’inverno, le scale, le piazzette, gli androni, gli ascensori, le stanze d’albergo, gli appartamenti barocchi, i quadri, gli occhi furtivi di un gatto, le hit di Tony Renis, Mina, Gino Paoli, la dinamica “cartesiana” degli oggetti, tutto in questo spartito è tensione e vertigine, turbamento e rarefazione dei sentimenti, fuoco e ghiaccio: Ripley, in virtù di una preziosa raffinatezza di scrittura e di una classe e di uno stile che traspaiono da ogni movimento di macchina, da ogni taglio di luce, da ogni sguardo e da ogni piccola inflessione dei protagonisti, rappresenta un nuovo punto di arrivo per la serialità d’autore.