L'AVVENTURA
L'AVVENTURA
GENERE: drammatico, sentimentale
ANNO: 1960
PAESE: Italia
DURATA: 140 minuti
REGIA: Michelangelo Antonioni
CAST: Gabriele Ferzetti, Monica Vitti, Lea Massari, Renzo Ricci, Dominique Blanchar, Dorothy De Poliolo
"L'Avventura" di Michelangelo Antonioni è un film del 1960 che segue un gruppo di persone in vacanza su un'isola. Durante il soggiorno, una donna scompare misteriosamente, innescando una ricerca disperata per trovarla. Il fidanzato della donna scomparsa e la sua migliore amica si mettono alla ricerca, ma mentre indagano, sviluppano una connessione emotiva inaspettata.
Un gruppo di amici parte per una vacanza in barca alle isole Eolie; durante un’escursione Anna, ragazza inquieta e dal rapporto tormentato col fidanzato Sandro, scompare misteriosamente; mentre le ricerche si rivelano infruttuose, anche perchè vengono ostacolate dagli agenti atmosferici, tra Sandro e Claudia, la migliore amica di Anna, comincia ad instaurarsi un rapporto di vicinanza sempre più intenso; i due, una volta tornati sulla terraferma col pretesto di seguire qualche debole traccia di Anna, finiranno in realtà ben presto per dimenticarsi di lei e vivranno questa loro attrazione reciproca senza sapere con precisione dove potrà condurli…
Dopo Il Grido – nel quale anticipava alcuni suoi temi cardine immergendoli però in un sostrato debitore del neorealismo -, film notevolissimo ma poco apprezzato da pubblico e critica a causa forse di una marcata cupezza di fondo, Michelangelo Antonioni mette in cantiere un’opera che rappresenterà non solo l’architrave sulla quale sviluppare compiutamente la propria arte ma anche una cesura fondamentale nell’intera storia del cinema.
L’Avventura nasce da vicende personali del regista (l’idea gli venne quando, durante una crociera a Ventotene, Monica Vitti – divenuta da poco sua compagna di vita, in attesa di ricoprire anche il ruolo di musa -, si inoltrò in un sentiero sconosciuto perdendosi) e forse proprio per questo si propone di esplorare per la prima volta in modo così “libero” ed “assoluto” (benchè vi fossero stati dei precedenti più che riusciti ma sviluppati in chiave maggiormente convenzionale come il debutto Cronaca Di Un Amore, sorta di noir che rimandava per certi versi a Ossessione di Luchino Visconti – e quindi ad una matrice letteraria come Il Postino Suona Sempre Due Volte di James Cain -, oppure Le Amiche, tratto invece dal racconto Tra Donne Sole di Cesare Pavese) la complessa interiorità di una borghesia che si avviava a diventare la classe “chiave” all’interno di un tessuto sociale in completa e veloce trasformazione; discorso che si sviluppa idealmente sin dalle prime inquadrature della pellicola, un dialogo freddo tra Anna e il padre – due generazioni ormai distanti, eppure il genitore intuisce perfettamente il modo in cui andranno le cose… – con la cementificazione selvaggia sullo sfondo, e poi si amplia toccando la vacuità del successo mondano e la fascinazione tossica per il denaro ne La Notte e L’Eclisse (temi peraltro già presenti in La Signora Senza Camelie, caustico ritratto di arrivismo nel mondo della celluloide sicuramente interessante ma non pienamente riuscito), l’alienazione favorita dalla civiltà industriale e consumista (Deserto Rosso e Zabriskie Point), passando attraverso la fallacia dello sguardo e della percezione della realtà per tornare in un certo senso al punto di partenza con la crisi stessa dell’identità (Blow Up e Professione Reporter).
Un percorso di una coerenza ammirevole, quello di Antonioni, molto attento alla contemporaneità, anche dal punto di vista della cultura pop (basti pensare alla presenza degli Yardbirds con Jimmy Page alla chitarra – unica testimonianza di quella line-up – in una celebre sequenza di Blow Up, o alla colonna sonora di Zabriskie Point, divisa tra brani di Pink Floyd, Rolling Stones, John Fahey e le improvvisazioni del chitarrista dei Grateful Dead Jerry Garcia sopra l’iconica scena di sesso nel deserto, senza contare il videoclip girato per la canzone Fotoromanza di una giovane e in ascesa Gianna Nannini), ma al contempo sempre proiettato nel futuro in modo lucidissimo (tanto da preconizzare – forse, viste poi certe derive attuali, con un eccesso di ottimismo positivista contrastante con il pessimismo sui rapporti umani che esprimeva su pellicola – la svolta epocale che la tecnologia avrebbe impresso all’industria-cinema, sia per quanto riguarda le infinite possibilità offerte ad autori come lui, aperti ad ogni tipo di sperimentazione – pensiamo al film per la tv Il Mistero Di Oberwald, che una critica miope ha sempre liquidato alla stregua di una “pacchianata” senza tener conto della portata rivoluzionaria dell’uso di un digitale per forza di cose molto rozzo (eravamo pur sempre nel 1980!) -, sia a proposito della diversa fruizione del prodotto finito da parte degli spettatori).
Da questo momento in poi lo stile di Antonioni si sostanzia di raccordi arditi basati più su associazioni di idee che su consequenzialità narrative, di inquadrature “pittoriche” e movimenti di macchina sempre più complessi attraverso paesaggi ed architetture (è rimasto negli annali il lungo piano sequenza sul finale di Professione Reporter), di un uso dei colori in chiave “emotiva” (si veda l’incredibile fotografia di Deserto Rosso), della cattura di espressioni del viso che dicono più di mille dialoghi – perchè “le parole confondono” e questi ultimi dunque si fanno più criptici, portatori di quelle “banalità profonde” o “profondità banali”, fate voi, che sono il sintomo della noia e della frustrazione derivanti dal dover costantemente rincorrere un mondo che brucia tutto in un attimo (“Una volta avevi i secoli davanti, ora al massimo dieci o venti anni”, dice il grande Gabriele Ferzetti a Monica Vitti, mentre è immerso in un panorama mozzafiato) -, radiografando alla perfezione quella difficoltà nelle relazioni – i sentimenti sono ormai inariditi a causa di una
concezione della vita materialistica e individualistica, così ci si ritrova sempre o troppo vicini o troppo lontani per stare alla giusta distanza, finendo col ricadere negli stessi errori come in un loop – che si traduce nella famosa “incomunicabilità”; Antonioni, nel suo “bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici”, parte allora quasi sempre da uno spunto di genere, prevalentemente giallo, per poi tradirlo, espandendosi in territori da “on the road” dell’anima potenzialmente infiniti, metafisici, quasi affini alla fantascienza (della quale il Nostro era non a caso appassionato, al punto da cercare di produrre un kolossal negli anni novanta intitolato Destinazione Verna), almeno a livello di suggestioni (pensiamo allo straniante finale de L’Eclisse, ad esempio, degno di un post-atomico), creando una poetica unica che lo conduce ad una sorta di cinema “puro”.
L’Avventura è tutto questo, di nome e anche di fatto: “Cinque mesi straordinari: violenti, logoranti, spesso drammatici, ma pieni”, ricorda così, il maestro ferrarese, la lavorazione del film, funestata da scioperi della troupe, trombe d’aria, produttori uccel di bosco ecc.; ed è anche il ribadire uno sguardo molto attento all’universo femminile, l’“identificazione di una donna” proiettata nella modernità ma forse al contempo sottilmente angustiata dal fatto di dover corrispondere a nuove aspettative (senza poter trovare risposte da un uomo ancora più fragile e disorientato di lei) che non lo abbandonerà mai, qui condotta attraverso la valorizzazione dello straordinario talento di una Monica Vitti fino ad allora restia ad intraprendere la carriera attoriale e per fortuna convinta dalla persona della quale era innamorata (approfitto qui per rivolgere un pensiero a questa meravigliosa ambasciatrice del nostro cinema scomparsa da poco), senza dimenticare l’intensa Lea Massari, la quale riesce ad essere sempre presente nonostante la sua assenza (perchè poi è in fondo Claudia a “diventare” lei, in un assunto di interscambiabilità quasi pirandelliano); il resto lo fa una Sicilia ancora selvaggia ed incontaminata, da Lisca Bianca a Noto, che Antonioni immortala insieme al fido direttore della fotografia Aldo Scavarda in sequenze che lasciano letteralmente a bocca aperta.
Autore spesso oggetto di “etichette” frettolose e di luoghi comuni (alimentati anche da alcuni suoi illustri colleghi: ricordiamo la punzecchiatura, in risposta a un giudizio poco lusinghiero su un suo film, messa in bocca da Dino Risi a Vittorio Gassman ne Il Sorpasso: “L’hai visto L’Eclisse? Io c’ho dormito, ‘na bella pennichella… Bel regista Antonioni!), e di conseguenza sempre piuttosto frainteso quando non guardato col sospetto riservato a chi odora di gratuito “intellettualismo” (mentre al contrario pochi sono stati capaci al suo pari – mi viene in mente David Lynch – di suscitare turbamento in maniera così “viscerale”, magari solamente attraverso uno sguardo o una carrellata che si spalanca sull’ignoto), Antonioni è in realtà uno dei registi più importanti ed influenti della storia, ammirato, studiato e omaggiato da almeno tre generazioni di cineasti: tra i tanti possiamo citare Stanley Kubrick, che lo definì “il grande artista del nostro tempo” e non ha mai nascosto la sua predilezione, in particolare, per La Notte (opera alla quale sicuramente ha guardato nel concepire Eyes Wide Shut), Brian De Palma, che con Blow Out ha girato un sentito tributo a Blow Up, Wim Wenders (evidenti, ad esempio, le affinità in un film come Paris, Texas), il quale ha anche avuto l’onore di coadiuvarlo alla regia nel suo ultimo lungometraggio Al Di Là Delle Nuvole del 1995, Andrey Tarkovskij, del quale è stato amico, Peter Weir – un film arcano e nel quale la natura ricopre il ruolo di vero e proprio personaggio principale come Picnic Ad Hanging Rock è chiaramente ispirato proprio a L’Avventura, al punto da riprodurne fedelmente alcune inquadrature -, ma anche lo stesso Dario Argento, molto “antonioniano” nella concezione postmoderna delle riprese di spazi ed edifici e nella tematica dell’illusorietà della visione, per giungere infine ai più contemporanei Kim Ki Duk (Ferro 3 La Casa Vuota), Wong Kar Way (In The Mood For Love), Lee Chang Dong (Burning), Nuri Birge Ceylan (C’Era Una Volta In Anatolia) e Ashgar Farhadi (About Elly).
L’invito più ovvio non può essere che quello di recuperare senza pregiudizi L’Avventura insieme all’intera filmografia di questo genio della macchina da presa per godere di una lezione ancora attualissima ad oltre settant’anni di distanza dal suo esordio.