Il trionfo della Nazionale di Bearzot ai Mondiali del 1982 è un evento straordinario non solo dal punto di vista sportivo, poichè la sua onda si riverbera su un Paese voglioso di mettersi alle spalle la cupa stagione della violenza politica per inaugurare un’era di disimpegno e leggerezza; la Serie A, archiviato lo scandalo del “totonero” del 1980 che coinvolse alcuni tra i giocatori più amati (uno su tutti Paolo Rossi, il futuro “Pablito” eroe di Spagna), conosce una nuova età dell’oro anche grazie alla cosiddetta “riapertura delle frontiere”, ossia la possibilità di ricominciare a tesserare in numero limitato i calciatori stranieri: diventa così in pochi anni il torneo più prestigioso a livello planetario, quello in cui convivono, oltre ai campioni nostrani, praticamente tutti i migliori “assi” internazionali (Falcao, Maradona, Platini, Zico, Rummenigge ecc.) che si esibiscono in stadi traboccanti di tifo.
I primi nel mondo del cinema a percepire questo nuovo “mood” sono i fratelli Carlo ed Enrico Vanzina, i quali scrivono una storia incentrata su tre supporter sfegatati delle nostre squadre più popolari, rispettivamente il camionista Tirzan (Juventus), il venditore d’auto Franco (Inter) e il “ras” della “Fossa dei Leoni” del Milan Donato; il film, intitolato ECCEZZZIUNALE… VERAMENTE ed uscito nel marzo del 1982, è il trionfo del Diego Abatantuono prima maniera nei panni del “terrunciello”, il meridionale trapiantato al Nord, rozzo e dai ragionamenti sconclusionati (personaggio peraltro inventato dal compianto Giorgio Porcaro); come spalle comiche non possono mancare i compagni cabarettisti del Derby Teo Teocoli, Massimo Boldi e Ugo Conti, con la splendida Stefania Sandrelli a reggere il gioco. ECCEZZZIUNALE è un film decisamente ispirato e pieno di momenti esilaranti il quale, oltre a fotografare tutto lo spettro di tic e manie legate al tifo calcistico (dall’attitudine bellicosa delle frange ultrà alla goliardia da bar, dal miraggio di far svoltare la propria vita con un “13” all’eterno dilemma tra la donna e la partita…), offre anche il ritratto di una città che si stava riproponendo come “capitale morale” del Paese (quella “Milano da bere” che i Vanzina, da ottimi notisti di costume quali sono sempre stati, continueranno a tratteggiare in altre pellicole di poco successive come Sotto Il Vestito Niente, Yuppies e Via Montenapoleone); in definitiva parliamo del primo vero e proprio cult-movie italiano di argomento calcistico, un’opera che ha superato brillantemente la prova del tempo e continua ad occupare un posto d’onore nel cuore di ogni appassionato che si rispetti (trascurabile, seppure con qualche momento azzeccato, il secondo capitolo girato nel 2006).
Sono poi altri due fratelli, Luciano e Sergio Martino, a cimentarsi nel filone (dopo aver marchiato a fuoco il genere thriller nei primi anni settanta) con la loro Dania Film: la formula è sostanzialmente quella della commedia “sexy”, molto in voga tra la metà dei settanta e i primi ottanta, traslata in ambito sportivo; comicità un po’ di grana grossa, certo, ma anche di indubbia efficacia grazie soprattutto ad attori di grande talento e carisma, capaci di inventare mimiche e tormentoni in grado di lasciare il segno (peraltro impressiona constatare come oggi, con la censura del politicamente corretto, sarebbe impossibile pronunciare certe facezie senza venire lapidati seduta stante – e questo vale per la stragrande maggioranza dei film dell’epoca – ).

Sempre nel 1982 affidano così a Pier Francesco Pingitore, celebre deus ex machina della compagnia del Bagaglino, un copione a episodi intitolato IL TIFOSO, L’ARBITRO E IL CALCIATORE; il primo, storiella di corna con sorpresa finale ai danni di un arbitro di serie A, sconta un canovaccio risaputo e si ricorda essenzialmente per la fisicità debordante di Carmen Russo e la simpatia di Alvaro Vitali, anche se i due migliori del cast sono Enzo Cannavale e Marisa Merlini (che ha almeno una battuta “stracultissima”…); decisamente una marcia in più ha invece l’episodio dedicato al tifoso, col romanista da generazioni Pippo Franco (ottima prova la sua, come quella di Mario Carotenuto nel ruolo del padre) costretto ad una doppia vita essendo prossimo alle nozze con la figlia del suo lazialissimo principale (interpretati rispettivamente dall’affascinante Daniela Poggi e da un come al solito irresistibile Gigi Reder); la resa dei conti avverrà, neanche a dirlo, durante un derby all’Olimpico dove il nostro dovrà letteralmente sdoppiarsi da una curva all’altra…
Un anno dopo torna la coppia Vitali-Russo in PAULO ROBERTO COTECHIÑO, CENTRAVANTI DI SFONDAMENTO, affidato stavolta all’esperto di “soldatesse” e “liceali” Nando Cicero; il protagonista del film in origine doveva essere un sosia di Paulo Roberto Falcao, ed era prevista anche la partecipazione del centrocampista della Roma in alcune scene; al rifiuto di quest’ultimo, Cicero riadattò il personaggio sulla fisionomia di Diego Armando Maradona, profetizzandone tra l’altro l’arrivo a Napoli che avverrà l’anno successivo…
La pellicola è alquanto strampalata (a cominciare dal titolo, col cognome scritto in un portoghese maccheronico; nel film poi, curiosamente, è usata invece la corretta grafia, ovvero Cotequinho), sia per quanto riguarda l’arco narrativo (un minestrone fatto di idraulici/detective che si fingono
campioni, pseudo-anonima sarda, nobildonne in carrozzella dedite alle scommesse, “mandinghi” e onorevoli iettatori…) che per un cast a dir poco bizzarro, dove oltre ai già citati protagonisti e al solito Mario Carotenuto troviamo un veterano come Tiberio Murgia, lo scrittore spezzino Giancarlo Fusco praticamente nel ruolo di se stesso, Moana Pozzi in una piccola parte e addirittura la grandissima Franca Valeri (!), che, con l’autoironia che la contraddistingueva, si cimenta nel ruolo della contessa; il risultato è decisamente “weird” ma il film mantiene tuttora un suo zoccolo duro di estimatori.

Il botto vero e proprio arriva però nel 1984 quando Sergio Martino in persona si mette dietro la macchina da presa per dirigere la storia di una piccola squadra di calcio provinciale appena promossa in serie A (chiamata Longobarda) e del suo nuovo folcloristico “mister”: nasce così L’ALLENATORE NEL PALLONE, film che da allora si tramanda di generazione in generazione tra gli appassionati (ma non solo, è patrimonio anche di chi non sa se nemmeno di quanti giocatori sia composta una squadra…).
Da una sceneggiatura ispirata a fatti e personaggi reali (alcuni dei quali appaiono nel film) Martino tira fuori un rutilante e divertentissimo tour de force dai tempi comici perfetti, calibrato sullo stato di grazia di un Lino Banfi al massimo dei giri (il quale, per inciso, aveva interpretato l’anno precedente insieme a Jerry Calà AL BAR DELLO SPORT, film tutt’altro che disprezzabile di Francesco Massaro incentrato sulla vincita di una schedina miliardaria e le sue conseguenze tragicomiche da parte di un meridionale emigrato a Torino): il suo Oronzo Canà (che rimanda a Oronzo Pugliese, allenatore degli anni sessanta e settanta noto per il suo carattere schietto e impulsivo) è ormai un’icona riconosciuta, tanto che persino i componenti della Nazionale ne hanno goliardicamente richiesto l’intervento portafortuna durante l’ultimo vittorioso campionato Europeo, con l’attore di Andria che si è simpaticamente prestato al gioco, ben felice di riprendere la sua “maschera” più riuscita (uno di quei casi nei quali la vita imita il cinema e non viceversa…); ma è tutto il cast – formato da uno stuolo di caratteristi di vaglia che spalleggiano l’esplosivo protagonista – a fare faville: vanno ricordati almeno Giuliana Calandra nel ruolo della moglie Mara – con tanto di tormentone legato al famoso stadio Maracanà – , Camillo Milli in quello del presidente Borlotti, il duo comico Gigi Sammarchi e Andrea Roncato nei panni di due traffichini di mezza tacca “con le mani in pasta dappertutto” e lo svizzero Urs Althaus in quelli del mitico Aristoteles, dinoccolato centravanti pescato nel campetto polveroso di una favela il cui nome allude ironicamente a quello del centrocampista brasiliano Socrates.
L’ALLENATORE NEL PALLONE è anche un film che, pur in chiave farsesca e caricaturale, tratteggia con chiarezza certi vizi connaturati all’universo calcistico, anticipandone persino alcune tendenze future: dal ruolo invasivo dei media come “fomentatori” dell’opinione pubblica (destinato a esplodere con l’avvento dei social) ai “magheggi” per far quadrare i bilanci (prestiti e comproprietà, evolutisi nelle odierne “plusvalenze”), passando attraverso il potere crescente di
mediatori e procuratori dal dubbio “pedigree” (ormai veri padroni del sistema dopo la liberalizzazione del mercato in conseguenza della “sentenza Bosman” del 1996) e l’individualismo dei giocatori, tutti presi dalla loro vita frivola e più preoccupati dell’interesse personale che del bene della squadra…
Girato tra Roma e dintorni e Rio de Janeiro, ad unire idealmente, grazie all’intuizione di Martino, le due patrie del football per eccellenza, e musicato dai fratelli De Angelis (gli Oliver Onions) con un motivetto in stile samba che si stampa in testa al primo ascolto, L’ALLENATORE NEL PALLONE è un piccolo miracolo tuttora mai replicato, neppure dall’autore stesso che ha tentato maldestramente di riprendere gli stessi personaggi in un film del 2008 sul quale non vale la pena di soffermarsi.
Un vero e proprio sequel-spin off de L’ALLENATORE NEL PALLONE doveva essere, invece, MEZZO DESTRO, MEZZO SINISTRO-DUE CALCIATORI SENZA PALLONE messo in cantiere nel 1985 sulla scia del grande successo del suo predecessore; Banfi/Canà però si tira indietro all’ultimo momento, così la sceneggiatura viene riscritta e il film prende una strada più autonoma; Martino lascia spazio come protagonisti a Gigi e Andrea nel ruolo di due calciatori (Cesarini e Margheritoni) sull’orlo del ritiro ingaggiati da una scalcinata neo-promossa (la Marchigiana) per tentare di rimanere in serie A; come comprimari si segnalano soprattutto Leo Gullotta nei panni del mister argentino Fulgencio, un “sergente di ferro” che inevitabilmente si scontrerà con i debosciati pseudo-professionisti, e Milena Vukotic in quelli della “focosa” proprietaria della ditta che sponsorizza la squadra…
La pellicola tenta di ripetere la solita ricetta collaudata ma stavolta il risultato è decisamente fiacco e le gag faticano a decollare: forse l’unico spunto degno di nota è nel finale, quando, durante una partita in Germania, Margheritoni viene provocato dai tifosi tedeschi imbevuti di pregiudizi nei confronti degli italiani, scatenando la sua reazione di orgoglio – come succedeva al Nino Manfredi emigrato in Svizzera di Pane E Cioccolata del 1974 – .
Facendo un piccolo passo all’indietro troviamo IL DIAVOLO E L’ACQUASANTA del 1983 dove Bruno Corbucci e Tomas Milian propongono una sorta di “Monnezza” apocrifo, ex calciatore della Roma e “trafficone” il quale si piazza nella canonica di un parroco che lo ha soccorso dopo un tentativo di suicidio con tutto ciò che ne consegue (truffe varie e poi redenzione attraverso l’aiuto alla squadretta locale); tra la solita performance sboccata e irriverente dell’attore cubano che ormai in queste vesti va col pilota automatico, affiora qui di nuovo il tema della spietatezza di un ambiente che prima ti eleva a “stella” per poi buttarti nella polvere in men che non si dica.
Altra opera significativa è IL RAGAZZO DI CAMPAGNA (1984) di Castellano e Pipolo: costruito su misura per la particolare vena comica di Renato Pozzetto, il film usa la contrapposizione tra lo stile di vita rurale e quello urbano rappresentando anch’esso, in chiave satirica, un vivido ritratto delle contraddizioni della Milano dell’epoca; il personaggio di Angela (Donna Osterbuhr), ragazza della quale si innamora il protagonista Artemio, è il prototipo della nuova donna indipendente, refrattaria ai legami e con interessi una volta considerati prettamente maschili come il calcio: tifosissima della Juventus e in particolare di Michel Platini (del quale ha un poster in camera da letto), coinvolge lo spaesato giovanotto – completamente alieno alle dinamiche “da stadio” – in un turbolento pomeriggio a San Siro per la partita contro l’Inter, dove, al culmine di una serie di equivoci, viene preso a schiaffi e poi finisce quasi per essere linciato dagli ultrà di casa che lo sorprendono nel parcheggio con in mano una bandiera bianconera…
Sull’onda delle imprese del Napoli di Maradona lanciato verso il primo scudetto della sua storia esce nel 1987 QUEL RAGAZZO DELLA CURVA B, one man show del cantante/attore Nino D’Angelo nei panni di un meccanico deciso a combattere le infiltrazioni camorristiche all’interno dello stadio San Paolo compattando le persone perbene sotto l’unica bandiera del tifo per gli Azzurri; il film, favoletta intrisa di manicheismo e buoni sentimenti (ma anche sorta di cartina di tornasole di come la tifoseria partenopea gradiva essere rappresentata: non a caso partecipa Gennaro Montuori detto Palummella, storico leader della curva B), è una sorta di riedizione del genere della “sceneggiata” pericolosamente confinante col trash; ebbe però un grande successo in area campana, con la canzone omonima che divenne una sorta di “colonna sonora” di quella stagione indimenticabile…
Nello stesso anno anche un maestro come Pupi Avati decide di dire la sua scrivendo un copione con la collaborazione dei giornalisti sportivi Italo Cucci (già direttore del Guerin Sportivo, settimanale che per l’occasione stampò due copertine fittizie da usare nella pellicola) e Michele Plastino (storico conduttore di trasmissioni sportive nelle tv romane); la trama ruota intorno alla figura del direttore sportivo di una squadra provinciale di serie A (che, seppur mai nominata, si rifà chiaramente al Vicenza, mentre il personaggio è vagamente ispirato, a detta degli autori, a Italo Allodi e Luciano Moggi), il quale grazie alle sue conoscenze, alla sua sagacia e anche a qualche “sotterfugio” è sempre riuscito a mantenere la società in linea di galleggiamento nonostante le sofferenze nei bilanci; quando però convince un giovane e rampante industriale ad acquisire le quote di maggioranza, convinto che con le sue disponibilità finanziarie si apriranno nuove prospettive, questi, deciso a portare un rinnovamento “etico” nella gestione, lo relega ai margini in un ruolo puramente rappresentativo; ma ben presto si renderà conto di avere ancora bisogno del vecchio leone…
ULTIMO MINUTO, questo il titolo scelto, declina in chiave realistica, intimistica e con una morale di fondo inequivocabile (un pesce rosso fa poca strada nella vasca degli squali…) i medesimi temi altrove trattati con toni “iperbolici” (si veda proprio L’ALLENATORE NEL PALLONE); ed è anch’esso un film di attori, perchè Avati mette in piedi un cast perfetto e lo guida con la consueta classe: Ugo Tognazzi nel ruolo del protagonista Walter Ferroni offre qui l’ultima grande interpretazione della sua carriera (morirà tre anni dopo) tratteggiando un uomo stanco e aggrappato tenacemente ad un ambiente al quale ha dato tutto se stesso (rende così perfettamente l’idea di come un addetto ai lavori debba vivere il proprio ruolo in maniera cinica e totalizzante, arrivando, se necessario, a strumentalizzare persino gli affetti familiari…), ma non sono da meno alcuni habituè dei set del cineasta emiliano come Elena Sofia Ricci nel ruolo della figlia Marta, Lino Capolicchio in quello dell’imprenditore Di Carlo, Massimo Bonetti (Boschi, il centravanti corrotto) nonché un Diego Abatantuono il quale, ormai a suo agio in ruoli drammatici dopo la svolta di Regalo Di Natale, torna nelle vesti di un talent scout; il ragazzino prodigio da lui scoperto e poi lanciato in extremis in prima squadra è interpretato invece da un giovane Marco Leonardi, mentre in un piccolo ruolo compare Nik Novecento, precoce talento che morirà a soli 23 anni pochi mesi più tardi.
Con ULTIMO MINUTO Avati, riuscendo a non tradire il proprio stile dove la durezza di certi snodi esistenziali si stempera in un afflato nostalgico e malinconico, gira, senza mostrare neanche uno scampolo di gioco, quello che, a conti fatti, rimane probabilmente il miglior film mai prodotto in Italia sul mondo del calcio; spiace soltanto che non abbia avuto la fortuna critica e di pubblico che avrebbe meritato.
Nel 1988 un giovane Marco Tullio Giordana dirige Isabella Ferrari in APPUNTAMENTO A LIVERPOOL (ringrazio il caro amico e compagno di tifo Alessio Pinza per la segnalazione), pellicola che prende le mosse dalla strage dello stadio Heysel di Bruxelles di tre anni prima per raccontare una storia di elaborazione del lutto e di desiderio di vendetta da parte di una giovane che nell’occasione ha visto uccidere davanti ai propri occhi il padre per mano di un teppista inglese; lo spunto è indubbiamente interessante, trattandosi di un evento che sollevò un enorme dibattito nell’opinione pubblica di tutta Europa – ad oggi non è ancora chiaro come sia stato possibile far disputare una finale di Coppa dei Campioni in uno stadio fatiscente, dove le tifoserie vennero ammassate alla rinfusa cosicchè i temibili hooligans si ritrovarono a contatto con famiglie di appassionati inermi venute dall’Italia per sostenere la Juventus – ma il film, pur non mancando di una certa atmosfera plumbea ed opprimente, rimane piuttosto superficiale ed irrisolto nella sua pretesa analisi sociologica e sentimentale.
Il calcio in quel periodo fa capolino anche in alcune commedie ad episodi di grande successo commerciale: vale la pena citare RIMINI RIMINI di Sergio Corbucci (1987), dove lo “yuppie” Jerry Calà ingaggia una prostituta perchè si spacci per sua moglie e “circuisca” un facoltoso ingegnere (Paolo Bonacelli) in modo da fargli firmare un contratto miliardario; la donna però, fanatica romanista, manda tutto a monte quando scopre che il tizio, tifosissimo juventino, si eccita ascoltando le radiocronache dei gol della “Vecchia Signora” contro gli odiati giallorossi…
Più articolato e noto è il segmento di FRATELLI D’ITALIA (Neri Parenti, su soggetto dei fratelli Vanzina, 1989) in cui Massimo Boldi, acceso milanista, si reca a Roma per assistere alla partita dei rossoneri caricando lungo il tragitto due trucidi ultrà giallorossi appena usciti di prigione (Angelo Bernabucci e Maurizio Mattioli), e dovendosi quindi fingere tifoso romanista per non incorrere nelle ire dei suoi passeggeri: il viaggio, dopo una serie di gag becere ma innegabilmente divertenti giocate sempre sul filo della contrapposizione Nord-Sud, si concluderà davanti allo stadio Olimpico dove la sorte di Boldi ricalcherà più o meno quella di Pippo Franco nel TIFOSO di sette anni prima…