Bava Puzzle: il cinema fantastico di Lamberto Bava
Esistono pochi personaggi in grado di innovare un genere attraverso il loro stile e la loro visione: uno di questi risponde al nome di Lamberto Bava, la cui vicenda umana ed artistica viene sviscerata in questo Bava Puzzle, documentario concepito e realizzato da Paola Settimini e Daniele Ceccarini con la collaborazione di Francesco Tassara (e disponibile su YouTube), nel quale il popolare cineasta si racconta in prima persona e viene raccontato da chi ha condiviso con lui tratti considerevoli di strada: sfilano così alcuni storici collaboratori-amici (i fratelli Avati, Antonello Geleng, Antonio Tentori, Luigi Cozzi) e gli attori che ha diretto (Urbano Barberini, Veronika Logan, Alessandra Martines, George Hilton, Erika Blanc), senza dimenticare coloro che hanno contestualizzato il suo cinema dal punto di vista critico (i fondatori di Nocturno Davide Pulici e Manlio Gomarasca), per giungere infine a chi ha provato a raccoglierne il testimone con deferente ammirazione (registi come i Manetti Bros. e Luigi Parisi).
Se è vero che l’ambito familiare spesso condiziona i nostri percorsi esistenziali, questo vale a
maggior ragione per Lamberto, erede di una dinastia “chiave” per il cinema nostrano iniziata in quel di Sanremo dal nonno Eugenio – scenografo e direttore della fotografia ai tempi del muto, nonchè in seguito capo del settore effetti speciali dell’Istituto Luce – , e proseguita col padre Mario, uno dei geni riconosciuti della settima arte; “buon sangue non mente”, si suol dire, e difatti il nostro, educato dal famoso genitore in maniera piuttosto anticonvenzionale, ricorda di aver ricercato, sin dalla tenera età, l’elemento fantastico ed insieme orrorifico all’interno della banalità del quotidiano, sino a venire quasi traumatizzato dalla sequenza della morte della madre di Bambi la prima volta che mise piede in una sala (un aneddoto allo stesso tempo tenero e significativo): non a caso nel suo cinema – che intratterrà sempre anche una sottile corrispondenza con quello paterno, pur distaccandosene a livello formale (i Manetti sostengono, a costo di essere tacciati di blasfemia, di preferire Lamberto a Mario…) – si ritroverà questa particolare “sensibilità”, spesso mediata dalla presenza dell’elemento infantile (come sottolineato dagli interventi della psicologa Sandra Moretti, che analizza le opere di Lamberto attraverso tale interessante ottica).
Ed ecco che le tessere del puzzle vanno pian piano componendosi: i lavori come aiuto regista, prima naturalmente con il padre e successivamente con professionisti del calibro di Joe D’Amato, Ruggero Deodato ma soprattutto Dario Argento – persona che sarà decisiva per la sua carriera futura – , poi il debutto sotto l’ala protettiva della “Avati Factory” con quel Macabro girato a New Orleans (perchè Pupi voleva approfittare dell’occasione per esplorare la capitale mondiale del jazz, sua grande passione, ma alla fine non andò…) che già dal titolo sembra una dichiarazione di intenti.
Nasce qui infatti l’autore che coniuga con classe innata una certa crudeltà di fondo con l’eleganza sia nei movimenti di macchina che nelle scelte di fotografia (Pulici individua nella sequenza iniziale di Blastfighter la quintessenza di questa caratteristica), dotato di grande personalità (“un uomo focoso ma attento” che ha “un rock ‘n’ roll dentro”, secondo la Martines e la Logan) e di idee chiare nella gestione del set e nel rapporto con gli attori (Lamberto “possiede il cinema” e “ha già tutto il film in testa”, dicono Barberini ed Hilton – il quale con lui ha interpretato l’unico horror della carriera, il film tv A Cena Col Vampiro – ), ma parimenti capace di improvvisare e di “risolvere” sempre anche l’inquadratura più complicata (come gli riconosce Avati).
Doti che affina con un thriller postmoderno e a suo modo metacinematografico (parole di Tentori) come La Casa Con La Scala Nel Buio e che esplodono definitivamente con i due capolavori per i quali è a tutt’oggi universalmente conosciuto, Demoni e Demoni 2, pellicole prodotte dall’amico Argento dove la sua carica “eversiva” si dispiega compiutamente: di nuovo il metacinema portato a conseguenze parossistiche, ma anche soluzioni geniali per quanto riguarda le caratteristiche intrinseche dei personaggi (i demoni, a differenza dei classici zombi romeriani, si muovono molto velocemente, stabilendo un nuovo canone), gli effetti speciali (i loro occhi luminosi, creati semplicemente applicando striscioline di carta argentata) e l’uso della musica.
Ci sono poi l’erotismo “malato” di Le Foto Di Gioia e il delirio di Body Puzzle, che ha dalla sua
un’idea terrificante e originale (il trapianto di organi…); ma parallelamente esce fuori anche il
Lamberto più prettamente fantasy, quello da sempre affascinato dagli universi di Georges Méliès, in un film come Shark-Rosso Nell’Oceano, magari trascurabile (lui stesso, poco convinto da un progetto a bassissimo budget che puntava a scimmiottare lo Squalo spielberghiano, lo firmò con lo pseudonimo John Old Jr., mutuato dal padre) eppure gestito con la consueta padronanza (Geleng ricorda la realizzazione del mostro metà pesce preistorico e metà piovra, una delle sue creazioni più bizzarre), e soprattutto in prodotti che hanno scritto la storia della televisione commerciale italiana, arrivando a far sognare un pubblico generalista di famiglie e adolescenti, come le cinque stagioni di Fantaghirò (anche qui recuperando un’idea di Mario, il quale si era ispirato ad una delle Fiabe Italiane di Italo Calvino), Desideria E L’Anello Del Drago e Sorellina E Il Principe Del Sogno.
Bava Puzzle – grazie ad un montaggio serrato che riesce ad amalgamare con grande efficacia, in poco più di un’ora di durata, le interviste ai vari protagonisti con sequenze significative dei film e diverse immagini di scena (di pregio anche le musiche di Francesco Tartarini) – cattura perfettamente non soltanto l’essenza di un regista di culto, ma anche l’atmosfera di una stagione
avventurosa del nostro cinema, segnalandosi perciò come un documento meritorio e prezioso.