TAXIDERMIA
TAXIDERMIA
GENERE: horror estremo vm 18, drammatico, grottesco
ANNO: 2006
PAESE: Ungheria
DURATA: 91 minuti
REGIA: György Pálfi
CAST: Csaba Czene, Gergely Trócsányi, Piroska Molnár, Adél Stanczel, Marc Bischoff, Gábor Máté
Taxidermia è un film ungherese del promettente regista György Pálfi ispirata in parte al racconto di Parti Nagy Lajos, A Hullamzo Balaton. Presentato al 59° Festival di Cannes racconta la vita di tre generazioni, nonno, figlio e nipote della famiglia Balatony. Siccome la pellicola presenta scene di sesso esplicito, di violenza e di forte degrado è etichettato come film vm 18 in ogni stato in cui è stato distribuito.
Taxidermia è suddiviso in tre parti, una per ogni protagonista della storia, l’unico legame è la parentela tra i personaggi e per il resto le tre vicende sono scollegate tra loro. Ciò che accade tra una narrazione e l’altra è lasciato a libera immaginazione dello spettatore. Ve lo descriverò come se fosse un lungometraggio ad episodi col nome del protagonista di turno.
Morosgoványi Vendel.
Vendel, il nonno, è un soldato semplice ai tempi della seconda guerra mondiale; è affetto da masturbazione compulsiva alimentata da un incontrollato voyeurismo e da una passione morbosa per il fuoco che porta la sua eccitazione a livelli ancor più alti (se possibile!). Vive in uno stato di degrado e di solitudine estrema e durante le sue masturbazioni si abbandona a visioni che sconfinano nella realtà.
Nulla è lasciato all’immaginazione durante gli atti di onanismo e, sebbene non ci siano immagini di violenza, l’atmosfera che si respira è veramente sporca e disturbante. Il sudicio in cui vive realmente e psicologicamente, Morosgoványi lo respiriamo a pieni polmoni.
Sul piano tecnico meritano una menzione un paio di sequenze. La prima è una stanza che ruota su se stessa con una vasca nel mezzo, vasca fulcro della vita in quella landa desolata di Ungheria: ci si lava una volta a settimana, ci si dorme, ci si mette la carne macellata di un maiale per far defluire il sangue, ci si fa sesso. La seconda è quando Vendel apre il libro del racconto della Piccola Fiammiferaia, è un volume di quelli che, nel momento in cui alzi la copertina viene a crearsi uno scenario 3d, la telecamera a quel punto si avvicina così tanto che… e non vi dico altro.
Nel finale Morosgoványi si abbandona, sopra la carne di un maiale macellato, al sesso sfrenato con la moglie del suo superiore ma non capiamo se sia immaginazione o realtà, se sia sesso o zoofilia. Fatto sta che ne nascerà un bambino.
Kálmán Balatony.
Il bambino in questione è Kálmán Balatony e vuoi per il modo nel quale è stato concepito (figlio di una “scrofa” scopata su di un maiale morto) o vuoi che il suo destino sia già segnato fin dalla nascita, nasce con una coda da suino prontamente recisa dal “padre” con una tenaglia. Il momento storico è cambiato e ora siamo catapultati nel periodo d’oro del Comunismo Sovietico e il nostro protagonista è un obeso campione di “abbuffata sportiva”. In cosa consiste questa disciplina? Nel mangiare oltre le possibilità umane per poi vomitare anche l’anima e passare alla manche successiva e così via. Se siete sensibili alla visione di gente che rigetta in “modalità cascata del Niagara” evitate quantomeno la visione di questa parte centrale. Arrivare ad esser campioni in questa specialità è molto difficile e la preparazione ha inizio fin da bambini; immaginate una mangiatoia in una stalla riempita fino all’orlo e queste povere creature che, come bestiame, mangiano fino a star male. Kalman si innamora di Gizi Aczél campionessa nell’ingozzarsi di carne e top sponsor di Stato; dalla loro unione nasce Lajoska Balatony che subisce da subito il disprezzo del padre perchè smunto ed emaciato.
Lajoska Balatony.
Veniamo ai giorni nostri. Il nipote, il terzo tassello di questo ributtante e sudicio ritratto generazionale, magro ed introverso, costantemente umiliato e vessato dal padre perchè rachitico, è dedito alla professione di tassidermista (finalmente!). Kalman ormai vive su una poltrona perchè talmente deforme da non riuscire a muovere neanche un passo e alleva tre gatti obesi tenuti in una gabbia; Lajoska alimenta e accudisce giornalmente sia lui che i felini finche un giorno trova il babbo morto, il ventre squarciato dai graffi e le viscere trascinate fin dentro la prigione degli animali. Il labile equilibrio di Lajoska Balatony salta e nella piena lucidità della sua follia imbalsama il padre e crea di se stesso un’opera d’arte da tramandare ai posteri.
Questa è la parte visivamente più shockante, si parla di imbalsamazione e la telecamera è sempre stretta ad inquadrare la lama del bisturi.
Come spesso accade per questo genere di film apporgli un’etichetta non è sempre facile così com’è impresa ardua sviscerarne i significati.
Taxidermia è anzitutto un film drammatico oltre che horror, di quelli non visivamente traumatizzanti ma talmente disturbanti che vi fanno incrostare sulla pelle lo schifo e il disagio. Non mancherà neanche di strapparvi qualche risata per alcune situazioni da black commedy volutamente grottesche ed esagerate.
Ma di cosa ci parla György Pálfi in Taxidermia?
Sicuramente è presente una forte critica politica e una condanna del mondo capitalista (soprattutto nel secondo episodio) con il suo cinico accumulare insensibile della dignità umana. Ma pensare che si fermi a questa visione è a dir poco superficiale.
György Pálfi va oltre e ci parla dell’essere umano ed è spietato nel descriverlo succube delle sue pulsioni, immorale quanto squallido. Il sesso è un’impulso bestiale privo di piacere; il cibarsi è un’introdurre materia senza assaporarla fino a star male; la donna è un’oggetto di sfogo della bramosia sessuale nulla di più, è come la carne esposta sul banco del macellaio (l’atto consumato su un maiale fatto a pezzi, il gioco del “compra la sposa”, la disquisizione iniziale sulla “figa”, etc…). Siamo corpi che soddisfano istinti nulla di più.
Sebbene Morosgoványi e Kálmán siano personaggi freddi ed aridi che non stimolano nessuna forma di empatia, la stessa cosa non si può dire di Lajoska, probabilmente il personaggio più forte e metaforico di Taxidermia; onestamente nei suoi confronti ho avuto un moto di compassione e di tristezza.
Cresciuto senza affetto e incapace di rapportarsi con le persone trova rifugio nel suo mondo fatto di animali, sebbene morti. Lui però è diverso dall’ambiente nel quale è cresciuto, lui i sentimenti li prova ma purtroppo urtano e si infrangono contro l’inumanità del padre. La sua è una vicenda amara e malinconica e il suo automutilarsi finale è una grande allegoria: il nostro corpo altro non è che una scatola di pulsioni senza amore e senza sentimento, cuore ed organi, non ci servono perchè viviamo solo con la bocca e con il pene, la testa poi è l’elemento più inutile perchè è la sede del pensiero e il pensiero porta esclusivamente sofferenza.
Taxidermia è a tutti gli effetti la descrizione dell’imbalsamazione dell’Animale Uomo, una vivisezione scientifica e crudele messa in scena da György Pálfi ed esposta sullo schermo cinematografico così come nel finale del film, a dir poco illuminante.