Nell’apprendere della scomparsa di Jean Louis Trintignant non ho potuto fare a meno di considerare il suo proficuo e duraturo rapporto con il nostro cinema: da Valerio Zurlini a Gianni Amelio, passando attraverso Tinto Brass, Giulio Questi, Dino Risi, Sergio Corbucci, Pasquale Festa Campanile, Giuseppe Patroni Griffi, Umberto Lenzi, Ettore Scola, ecc. molti sono stati – e tra i più prestigiosi, come si può desumere da questo elenco – i registi conquistati da questo straordinario interprete francese schivo ed eclettico, il quale ha avuto così modo di lasciare la sua impronta in pellicole di grande spessore artistico e spesso entrate di diritto nell’immaginario collettivo (facile citare Il Sorpasso, ma che dire ad esempio di un memorabile western come Il Grande Silenzio?); vorrei qui in particolare analizzare due film che hanno la peculiarità di poter essere annoverati tra le più felici riduzioni cinematografiche di opere letterarie mai operate.
Siamo nel 1951 e Alberto Moravia pubblica uno dei suoi libri più importanti, Il Conformista, storiadi tale Marcello Clerici, il quale, in conseguenza di un trauma subito da bambino (si convince di aver ucciso per errore l’autista di famiglia che lo stava molestando), una volta divenuto adulto cerca in ogni modo di uniformarsi alla massa piccolo-borghese, finendo per aderire entusiasticamente al Fascismo al punto da proporsi come volontario per l’Ovra; riceverà così l’incarico di uccidere il suo ex professore universitario di filosofia riparato in Francia, dove si potrà recare col pretesto del suo viaggio di nozze…
Moravia, attraverso lo scavo interiore riservato al suo personaggio, compone un vero e proprio trattato psico-sociologico su un regime che, secondo la sua analisi, ebbe successo popolare non solo grazie alla violenza o all’interesse privato ma anche perchè rappresentò una sorta di “rifugio” all’interno del quale tanti inetti e frustrati (anche di natura sessuale) poterono sentirsi finalmente “qualcuno” (assunto non dissimile da quello del Carlo Emilio Gadda di Eros E Priapo, il quale arriva a teorizzare un’identificazione quasi erotica con la figura del Duce), senza dimenticare quell’attitudine gregaria della maggioranza che, unita al “camaleontismo” (il giorno prima tutti fascisti, il giorno dopo tutti antifascisti come se nulla fosse…), rappresenta un difetto atavico di una nazione dove, in definitiva, si cambia sempre tutto per non cambiare mai nulla nella sostanza (ce lo dice un altro testo fondamentale come Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi Di Lampedusa).
Nel 1969 un regista in prepotente ascesa come Bernardo Bertolucci si imbatte nel romanzo (è la compagna di allora a raccontargli la trama) e decide di trarne una sceneggiatura (per la quale verrà candidato al premio Oscar), che produce l’anno successivo; l’autore parmigiano ne mantiene l’impianto di fondo, accentuandone se possibile l’aspetto politico-filosofico con l’inserimento del personaggio di Italo, funzionario della polizia segreta e migliore amico di Marcello, la cui cecità simboleggia quella di un Paese intero di fronte ai deliri della dittatura, ricollegandosi così ad un archetipo come il mito della caverna di Platone, introdotto in un dialogo tra il professor Quadri e il suo allievo appena reincontratisi (sequenza che Bertolucci conduce significativamente con un sublime gioco di chiaroscuri all’interno della stanza); non manca poi di focalizzare il tema, di chiaro sapore sessantottino, della lotta femminista per la libertà sessuale (riassunta nella figura di Anna Quadri, in contrapposizione a quella di Giulia) come antidoto nei confronti dell’autoritarismo; ah, c’è anche il primo tango a Parigi della sua carriera, mentre l’ultimo lo girerà tre anni dopo: ma quella è un’altra storia…
Tra omaggi alla Nouvelle Vague (Bertolucci attribuisce al professor Quadri l’indirizzo e il numero di telefono dell’epoca di Jean Luc Godard, suo punto di riferimento artistico…), uno stile di ripresa già molto personale (le sue celebri carrellate), fotografia, scenografie e costumi a livelli di assoluta eccellenza (opera rispettivamente di mostri sacri come Vittorio Storaro, Ferdinando Scarfiotti e Gitt Magrini, i quali compongono una ricostruzione storica potente e immaginifica tra l’Eur e la capitale francese) e soprattutto il montaggio avanguardistico di Kim Arcalli (destinato a diventare oggetto di studio e ammirazione a livello internazionale – Francis Ford Coppola proietterà il film durante leriprese del Padrino per far “assorbire” alla sua troupe quel nuovo modo di fare cinema -), che spezzetta il girato tra flashback, flashforward e cesure secche e spiazzanti per conferire all’insieme un taglio noir quasi onirico decisamente affascinante, Bertolucci (con, ricordiamo, Aldo Lado come aiuto regista) tira fuori quello che forse può essere considerato il suo capolavoro ed uno dei più importanti film italiani in assoluto; merito anche, però, di un cast azzeccatissimo: se in ruoli di contorno, e tuttavia fondamentali, troviamo attori del calibro di Gastone Moschin (l’agente speciale Manganiello), Josè Quaglio (Italo Montanari), Dominique Sanda (Anna Quadri) e Pierre Clementi (Lino Semirama), solo per citarne alcuni, sono i due protagonisti a donare alla pellicola una marcia in più: Stefania Sandrelli è la splendida e ingenua Giulia, la sposa di Marcello incarnato magistralmente da Jean Louis Trintignant come una sorta di marionetta malinconica e tormentata, i cui sensi di colpa sopiti a fatica e infine proiettati freudianamente verso il mondo esterno sono quelli di un’intera generazione sprofondata senza colpo ferire dentro ad un buco nero.
Trascorrono un paio d’anni e gli scrittori torinesi Carlo Fruttero e Franco Lucentini danno alle stampe la loro opera prima, un romanzo destinato non solo ad un grande successo di pubblico e di critica ma anche a diventare un vero e proprio piccolo classico; eh sì, perchè La Donna Della Domenica, pur presentandosi nella veste di un giallo canonico con omicidio, indagine e risoluzione del caso (ed è notevole e ingegnoso anche da questo punto di vista, intendiamoci), risulta in realtà una complessa e salace radiografia dell’alta borghesia del capoluogo piemontese e di ciò che le gravita intorno, sulla scorta, ad esempio, di un’altra opera seminale come Quel Pasticciaccio Brutto De Via Merulana di Carlo Emilio Gadda (tocca citarlo di nuovo, ma non è mai abbastanza), incentrata su ambienti simili ma stavolta della Città Eterna ai tempi del Fascismo (e riadattata successivamente per il grande schermo da Pietro Germi col magnifico Un Maledetto Imbroglio); qui la prosa non raggiunge le vette di sperimentalismo lessicale e di plurilinguismo toccate dal grande “ingegnere” ma rimane comunque avvolgente e affilata come uno stiletto nel penetrare con finezza e una buona dose di cinismo – stemperato però da un marcato lato umoristico – tra i vizi e i vezzi di una “fauna” variegata, restituita sempre in modo molto vivido nella sua complessità psicologica.
Sfilano allora personaggi intriganti e sfaccettati come l’indolente e disilluso commissaro Santamaria, siciliano trapiantato al nord (il quale apparirà anche nel romanzo successivo A Che Punto È La Notte), le svampite sorelle Tabusso, strenue nel difendere la loro proprietà collinare minacciata dalle prostitute e dai vincoli della soprintendenza, o il mite ed entusiasta impiegato comunale Lello Riviera, il quale si mette nei guai per aiutare l’uomo del quale è follemente innamorato; e non parliamo poi di tutto quel milieu pseudo-culturale velleitario e cialtronesco, i cui esponenti sono il viscido e perennemente “allupato” architetto Garrone, al quale gli autori riservano non a caso una sorte tragica e ironica allo stesso tempo (gli viene sfondato il cranio con un enorme fallo di pietra!), il gallerista Vollero (che spaccia per dipinti quotati le “croste” recuperate al mercatino delle pulci…) e l’americanista Bonetto (ispirato alla figura del critico letterario e scrittore Claudio Gorlier, compagno di classe di Fruttero al liceo), perso in fumose querelles magari giocate su una possibile allusione personale contenuta in un articolo; ma le due colonne del romanzo restano sicuramente Anna Carla Dosio – donna giovane e seducente, moglie di un industriale che la lascia quasi sempre sola – e Massimo Campi – rampollo di un’importante famiglia e più o meno segretamente omosessuale -: sono ricchi, annoiati, frivoli e coltivano un’amicizia sui generis basata su quello che chiamano il loro “teatrino privato”, ovverosia l’autoproclamata licenza di sparare a zero senza filtri su tutti i loro conoscenti (abitudine che gli si ritorcerà contro, portandoli ad essere coinvolti nelle indagini…) ma anche in maniera reciproca, visto che sono capaci di guardarsi in cagnesco per giorni a causa della pronuncia di una parola (Boston…).
Una tale miniera di sagacia narrativa e di spessore nei personaggi non poteva che attirare le attenzioni del cinema; sono nientemeno che Age e Scarpelli ad incaricarsi di trarre una sceneggiatura dal best seller, mentre la regia viene affidata ad un sicuro e navigato talento come quello di Luigi Comencini, reduce dal clamoroso successo dello sceneggiato televisivo Le Avventure Di Pinocchio (a tutt’oggi un vero e proprio cult e la migliore trasposizione mai effettuata del romanzo di Collodi, con buona pace di Roberto Benigni e di Matteo Garrone); completano il quadro un certo Luciano Tovoli alla fotografia ed il maestro Ennio Morricone che si incarica di contrappuntare il tutto con un motivetto che richiama quello di Indagine Su Un Cittadino Al Di Sopra Di Ogni Sospetto.
Nel 1975 esce così il film omonimo, che cattura in modo mirabile lo spirito delle pagine di Fruttero e Lucentini (i due scrittori ne furono infatti entusiasti): ad uno script molto rispettoso del materiale originale, solamente condensato e snellito in alcuni passaggi per ovvie ragioni, e ad una concezione delle inquadrature molto essenziale e incentrata in particolar modo sulla valorizzazione degli ambienti – Comencini coglie perfettamente il fatto che Torino, con i suoi misteri e le sue zone oscure dietro un’aria apparentemente calma e ordinaria, è la vera protagonista “ombra” del romanzo (e forse non è un caso che nello stesso anno la città sia teatro di una pellicola che cambia per sempre le regole del genere thriller come Profondo Rosso) – si aggiunge il tassello decisivo di un cast letteralmente in stato di grazia, indispensabile per la riuscita di un’opera che si regge essenzialmente sulla vivacità dei dialoghi: tra caratteristi di grande pregio quali Claudio Gora (l’architetto Garrone), Gigi Ballista (il gallerista Vollero), Aldo Reggiani (Lello Riviera), Pino Caruso (il commissario De Palma), Lina Volonghi (Ines Tabusso) ed altri, spiccano senza ombra di dubbio il sempre eccellente Marcello Mastroianni nei panni del commissario Santamaria (ruolo che ricoprirà di nuovo nella miniserie televisiva tratta da A Che Punto È La Notte, diretta da Nanni Loy nel 1994) e la coppia d’oro Jacqueline Bisset e Jean Louis Trintignant in quelli di Anna Carla Dosio e Massimo Campi; i loro giochi di sguardi e i loro “botta e risposta” sospesi tra la divertita vacuità e lo sferzante gioco intellettuale valgono da soli il prezzo del biglietto.
Emblemi di un paradigma sì colto e capace di dire qualcosa sulle dinamiche sociali ma allo stesso tempo perfettamente adatto alla fruizione di massa, Il Conformista e La Donna Della Domenica vanno riproposti come testimonianza di un cinema libero e creativo ancora possibile ai giorni nostri a patto di coltivare una visione autoriale che possa magari avvalersi del nostro grande patrimonio letterario e al contempo non abbia paura di battere i sentieri del “genere”; più difficile, certo, sarà in futuro ritrovare interpreti della classe di Jean Louis Trintignant.