C’ERA UNA VOLTA… A HOLLYWOOD

C'ERA UNA VOLTA... A HOLLYWOOD

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GENERE:        drammatico

ANNO:             2019

PAESE:            USA

DURATA:         161 minuti

REGIA:             Quentin Tarantino

CAST:               Leonardo DiCaprio, Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Margaret Qualley, Timothy Olyphant, Dakota Fanning, Bruce Dern, Al Pacino, Kurt Russell, Luke Perry

Siamo nel febbraio del 1969 e l'attore Rick Dalton (interpretato dal bravissimo Leonardo Di Caprio con un ampio spettro di registri e di sfumature) si trova ad un bivio; protagonista di una serie tv western di successo alla fine degli anni cinquanta, sta ora provando, con scarsa fortuna, a fare il grande salto verso il cinema; i tempi stanno cambiando (avanza il movimento della New Hollywood, con la sua differente visione), la parte del cattivo ormai è inflazionata, così un agente (Al Pacino) gli propone di spostarsi in Italia per girare qualche “spaghetti western”, il genere allora in voga dopo l'exploit di Sergio Leone...

… Rick capisce che le sue aspirazioni stanno naufragando e sprofonda nella depressione e nell’alcolismo; l’unico conforto gli arriva da Cliff Booth (un magnetico Brad Pitt, in un ruolo iconico per certi versi accostabile a quello di Tyler Durden in Fight Club), uno stuntman piuttosto chiacchierato nell’ambiente e per questo anch’egli a corto di lavoro, il quale dopo essere stato la sua controfigura è divenuto col tempo tuttofare e amico inseparabile. Una sera Rick, rientrando insieme a Cliff nella sua abitazione di Cielo Drive, scopre per caso che i suoi nuovi vicini sono nientemeno che Sharon Tate e Roman Polanski, così inizia a fantasticare di fare la loro conoscenza e di proporsi al famoso regista… Cliff intanto, durante uno dei suoi giri a zonzo in auto per la città, offre un passaggio a una ragazzina hippy che lo conduce allo Spahn Ranch, luogo un tempo usato come set cinematografico (nel quale egli stesso aveva lavorato) ed ora occupato da una strana comunità capeggiata dal fantomatico Charles…

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Il nono lungometraggio di Quentin Tarantino rappresenta un ritorno a casa e probabilmente anche un bilancio su se stesso come cineasta e come uomo (significativo, a questo proposito, il fatto che sia diventato da poco padre per la prima volta); in questa occasione, infatti, il nostro non attinge al passato solamente per smontare e rimontare il suo puzzle in chiave giocosa e postmoderna ma vira su uno spartito che tocca corde più intime e dal retrogusto romantico e malinconico, si mette dalla parte dei dimenticati, dei perdenti, delle vittime, elevando un’ode alla lealtà virile, alla dedizione al mestiere, al talento che fatica ad emergere, alla resilienza di fronte ai colpi bassi, e in fin dei conti anche a Los Angeles stessa e alle sue strade (in un dedalo di rimandi che passa attraverso il “cinema sul cinema” di Fellini, Wilder, Godard, Truffaut per giungere sino al Lynch di Mulholland Drive e Inland Empire); a chi aspettava l’ennesimo excursus dentro la Mecca del vizio e della corruzione il regista consegna invece una riflessione controcorrente sull’idealismo e sull’innocenza da preservare ad ogni costo.

Quentin Tarantino vuole che il luogo mitico della sua infanzia rimanga incontaminato, perciò, come in un sogno, fa rallentare il tempo sino quasi a cristallizzarlo, lo intrappola in un loop di azioni ricorrenti e di “doppi” e lo rimodella nel continuo ribaltamento ironico di stereotipi che tocca la controcultura (gli hippy nel migliore dei casi sono degli sciroccati e nel peggiore dei balordi che si trincerano dietro ad un movente sociologico d’accatto – “uccidere chi gli ha insegnato a uccidere”, ossia le stelle della tv – per compiere le loro nefandezze), la leggenda della Hollywood Babilonia (nessuno sembra essere particolarmente interessato al sesso: Cliff rifiuta le avances di un’adolescente chiedendole la carta d’identità – forse un’allusione alla vicenda giudiziaria di Polanski? – , e persino il party alla Playboy Mansion sembra una festa delle medie…), l’iconografia pop (lo spassosissimo scontro tra Cliff e Bruce Lee, con relative polemiche riguardo alla rappresentazione di quest’ultimo), i suoi stessi venerati maestri (“Chi cazzo è Sergio Corbucci?”), ed è riassumibile nella scelta mirata e paradossale dei due protagonisti (il galoppino Cliff/Pitt è tutto ciò che il divo in disgrazia Rick/Di Caprio in fondo vorrebbe essere: fascinoso, carismatico, sicuro di sé, benchè circondato da una certa aura “maledetta”).

Fuori dal tempo per eccellenza (“Out Of Time” degli Stones spicca non a caso in una colonna sonora che come al solito vale da sola il prezzo del biglietto) è la deliziosa e solare Sharon Tate di Margot Robbie (la quale, in un altro parallelo con l’opera di David Lynch, sta quasi a C’Era Una Volta A… Hollywood come Laura Palmer/Sheryl Lee alle tre stagioni di Twin Peaks e a Fuoco Cammina Con Me); particolarmente toccanti, alla luce di ciò che accadde alla sfortunata ragazza, sono tutte le sequenze che la riguardano, nelle quali si intersecano schegge di vita reale e di cinema (il cane chiamato Sapirstein come il ginecologo di Rosemary’s Baby; l’acquisto del romanzo Tess D’Ubervilles da regalare a Roman, il quale dieci anni dopo ne trarrà un film che dedicherà alla sua memoria; tutta la parte nella sala dove proiettano Missione Compiuta Stop. Bacioni Matt Helm, in cui lei ha un ruolo; la gioia per l’imminente nascita del suo bambino); il dialogo finale davanti al cancello, dopo una carneficina catartica dove si citano Dario Argento e il Fernando Di Leo di Milano Calibro 9, rappresenta lo struggente ed estremo omaggio ad un arte che può, se non purtroppo materialmente, almeno metaforicamente sconfiggere la morte e preservare i suoi eroi eternamente giovani e belli.

C’era una volta… a Hollywood è l’opera della maturità di Quentin Tarantino, sia dal punto di vista registico (dove ormai possiamo tranquillamente parlare di maestro conclamato) che concettuale; cosa rappresenti è presto per dirlo: forse una cesura e una ripartenza come fu a suo tempo Jackie Brown, o forse addirittura un commiato (in effetti sarebbe un perfetto testamento spirituale); come il film del 1997 è poco “tarantiniano” nell’accezione che comunemente si dà a questo aggettivo, e probabilmente gli toccherà il medesimo destino: dividere pubblico e critica alla sua uscita ma, una volta storicizzato, diventare un classico.

Anton Chigurh

Mi chiamo Mattia, alias Anton Chigurh, classe 1975, ho fatto studi classici e sono orgogliosamente spezzino; cosa chiedo ad un film o ad una serie tv? Di farmi riflettere, di inquietarmi, di lasciarmi a bocca aperta, di divertirmi... Per sapere dove trovo tutto questo, leggete le mie recensioni su I Cinenauti!