LA RIMPATRIATA
LA RIMPATRIATA
GENERE: drammatico
ANNO: 1963
PAESE: Italia
DURATA: 100 minuti
REGIA: Damiano Damiani
CAST: Walter Chiari, Letícia Román, Francisco Rabal, Riccardo Garrone, Dominique Boschero, Mino Guerrini, Paul Guers, Gastone Moschin, Jacqueline Pierreux
La rimpatriata. Alberto, rientrato da poco a Milano, incontra per caso l'amico Sandrino, che non vedeva da anni; dopo un momento di imbarazzo, quest'ultimo gli propone di organizzare, per la sera stessa, una cena con Livio e Nino, altri due componenti della loro vecchia compagnia; alla fine i quattro, pur essendo inizialmente riluttanti, decidono di andare a recuperare anche Cesarino, che in gioventù era un po' l'animatore del gruppo; l'uomo, benchè gravato da una situazione personale piuttosto complicata, si dimostra felicissimo della sorpresa e, non avendo perso la consueta vèrve, trascina tutti in una notte “brava” che porterà allo scoperto molti nodi irrisolti...
Gli inizi della carriera di Damiano Damiani – cineasta poliedrico rimasto nell’immaginario collettivo perlopiù con l’etichetta di regista di impegno civile (per film riguardanti il rapporto tra Stato e criminalità tra i quali Il Giorno Della Civetta, Confessione Di Un Commissario Di Polizia Al
Procuratore Della Repubblica, Girolimoni Il Mostro Di Roma, Perchè Si Uccide Un Magistrato ecc., senza dimenticare la prima stagione di una serie tv che ha fatto epoca come La Piovra) – sono stati contrassegnati da alcune notevoli pellicole nelle quali, attraverso il prisma del “genere”, ha analizzato i grandi cambiamenti in atto nella società italiana dei primi anni sessanta: parliamo dell’opera prima Il Rossetto, dramma poliziesco – interpretato, tra gli altri, da un Pietro Germi che ricalca il personaggio del commissario Ingravallo del suo Un Maledetto Imbroglio – che ruota intorno alla figura di una “lolita” tredicenne attratta da un rappresentante di commercio, il quale finisce per essere sospettato di un omicidio; segue a ruota Il Sicario, torbida vicenda – ispirata, come il Vedovo di Dino Risi dell’anno precedente, al famoso caso Fenaroli – di un uomo oberato dai debiti che assume un killer per far uccidere il suo creditore; per arrivare, infine, a La Rimpatriata, un film tanto misconosciuto quanto importante, poichè rappresenta una sorta di trait d’union tra varie epoche cinematografiche, anticipando sostanzialmente tutto quel filone dedicato ai “ritratti generazionali” che tanta fortuna avrà non solo in Italia (pensiamo a Il Grande Freddo di Lawrence Kasdan).
I cinque amici (miei…) – Gastone Moschin, futuro Rambaldo Melandri nella fortunata saga, ruba qui la scena per qualche minuto nei panni di un ottuso e incazzoso operaio chiamato Toro – che si ritrovano a fare scherzi al telefono (con tanto di “supercazzole” ante-litteram) come scolari
indisciplinati (sarà Carlo Verdone, venticinque anni dopo, a girare un’altra “rimpatriata” tra compagni di liceo) e a correre in macchina nella notte senza una meta, sono i “vitelloni” di Fellini ormai divenuti dei borghesi quarantenni, ma ancora incapaci di vivere da adulti, anzi sotto sotto
impauriti dall’idea del tempo che trascorre inesorabilmente; la loro superficialità, il loro cinismo, la loro misoginia strisciante (escluso forse Cesarino, che, a modo suo, ama tutte le donne, al punto da “gestire”, tra consorte ed amanti varie, un bizzarro “harem”…) – chiari meccanismi autodifensivi inconsci – rappresentano la zona oscura che si cela dietro al boom (“Qua costruiscono, costruiscono ma il miracolo economico è finito, ce ne accorgeremo presto…” dice a un certo punto Sandrino), col rapporto tra i sessi a fungere da cartina di tornasole.
Damiani mostra come – alla luce di quello sviluppo materiale senza un vero progresso morale e culturale così ben inquadrato da Pier Paolo Pasolini – istituzioni quali il matrimonio e la famiglia stiano andando progressivamente in crisi (anche la cosiddetta “emancipazione” femminile è contraddistinta da maggior disincanto e pragmatismo nei confronti dei legami), l’ipocrisia regni ormai sovrana nei rapporti interpersonali e lo “status”, vero o presunto, sia l’unico biglietto da visita per ambire ad una rispettabilità pubblica: Sandrino (un convincente Riccardo Garrone) si dà arie da imprenditore rampante ma in realtà è un trafficone “…che ha sempre a che fare con i tribunali”, come gli ricorda, al culmine di una lite, Livio (un azzimato Paul Guers); il quale, a sua volta, deve una carriera da medico di successo ai soldi della moglie più anziana di lui, che oltretutto lo tradisce con un suo collega…; per non parlare del “figlio di papà” Nino (interpretato dal regista Mino Guerrini), che nasconde, dietro alle fanfaronate da single incallito e sedicente playboy, un’esistenza vacua; Alberto invece (un tenebroso Francisco Rabal), trasferitosi a Roma per esercitare la professione legale, nonostante sia, apparentemente, il più maturo della brigata (si dichiara marito e padre felice), finisce per dare prova di una sorprendente doppiezza quando, dopo una “sveltina”, fa balenare alla diciannovenne – e quindi per l’epoca minorenne – Carla (una brava Leticia Roman, già protagonista di La Ragazza Che Sapeva Troppo del Maestro Mario Bava), pensando di poterla manipolare con facilità, il miraggio di un futuro insieme…
Solo Cesarino (uno straordinario Walter Chiari, qui nel suo ruolo migliore al cinema), a ben vedere, ha il coraggio di essere ciò che è: un eterno Peter Pan, cialtrone sì ma in fondo anche ingenuo sino all’autolesionismo, al punto da rimanere “incastrato” in un’esistenza tragicomica (il che, certo, non giustifica l’irresponsabilità dei suoi comportamenti, perchè “Scherzando scherzando come fa lui c’è poi sempre qualcuno che ci lascia le penne”); per questo viene sottilmente disprezzato (ma anche un po’ invidiato…) dagli altri, i quali a suo tempo lo hanno abbandonato nonostante avesse bisogno di aiuto e ora fingono di volersi sdebitare, ma in realtà hanno solo bisogno di un giullare che tiri su il morale alla “truppa”; così ci ricade, tanto da andare a cercare il Larone, una vecchia fiamma finita a fare la prostituta – con la quale condivide una sorta di affinità elettiva tra “Nonsensi di questa Milano del boom” – nel sincero quanto assurdo proposito di redimerla; ma sarà solo l’ultima mano di carte avvelenata (come quella di Regalo Di Natale di Pupi Avati, altro memorabile rendez-vous al vetriolo), che gli farà comprendere, nella manierà più brutale, l’indifferenza degli “amici” nei suoi confronti…
Damiani gira un film corale con attori in stato di grazia, quasi perfetto per ritmo e dialoghi scoppiettanti (tra l’altro molto espliciti per l’epoca, tanto da far drizzare le orecchie alla censura), “leggero” in superficie ma in realtà amaro ai limiti della spietatezza (nell’omaggio a Hiroshima Mon Amour, capolavoro di Alain Resnais proiettato nel cinema gestito da Cesarino, c’è tutto il senso di “perdita” del quale è pervasa la pellicola); lo splendido bianco e nero di Alessandro D’Eva “cesella” strade, piazze, locali e periferie di una Milano nebbiosa e piena di cantieri, mentre un pezzo struggente come La Rosa Bianca di Sergio Endrigo incornicia l’incipit e il finale da par suo.
La Rimpatriata, opera decisamente in anticipo sui tempi, è una gemma assolutamente da riscoprire, degna di sedersi nel pantheon delle migliore commedie drammatiche accanto ai capolavori di Maestri come Dino Risi, Mario Monicelli, Ettore Scola, Pietro Germi, ecc., a testimoniare un’irripetibile epoca d’oro del nostro cinema.