fight club
GENERE: drammatico, psicologico
ANNO: 1999
PAESE: USA
DURATA: 139 minuti
REGIA: David Fincher
CAST: Brad Pitt, Helena Bonham Carter, Edward Norton, Meat Loaf, Jared Leto, Ezra Buzzington
La prima regola del Fight Club è... Tornare a parlare di Fight Club! Usciva esattamente venticinque anni fa un film entrato nell'immaginario collettivo del quale vale la pena inquadrare il lascito in una prospettiva ormai storicizzata.
Il protagonista e io narrante, di cui non verrà mai fatto il nome, è un giovane sulla trentina impiegato come consulente assicurativo di una nota azienda automobilistica; tormentato dall’insonnia e frustrato dalla routine quotidiana, ha come unico svago quello di arredare compulsivamente il suo appartamento da single con le ultime novità sul mercato.
Per combattere la depressione, l’uomo comincia a frequentare, fingendosi uno di loro, dei gruppi di ascolto per malati terminali dove conosce Marla Singer, una ragazza che ha avuto la sua stessa idea; contrariato dal fatto di trovarsela sempre tra i piedi, le propone di dividersi il calendario al fine di non incontrarsi più: per fare ciò i due si scambiano i numeri di telefono.
Un giorno, di ritorno da una trasferta di lavoro, il nostro conosce in aereo un tizio eccentrico che dice di produrre saponette e di chiamarsi Tyler Durden; la sera stessa, quando apprende che la sua abitazione è rimasta distrutta a causa di un incendio, lo chiama sperando in qualche forma di aiuto; dopo aver bevuto qualcosa, Tyler gli chiede di fare a botte per provare una nuova sensazione di libertà; dapprima riluttante, finisce per acconsentire e, dopo aver scambiato goffamente qualche
cazzotto, il nuovo amico lo invita a stabilirsi nella sua casa: inizia così un sodalizio che riserverà non poche sorprese.
“Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rockstar…”
Bisogna forse partire da una frase come questa, la quale pronunciata da Brad Pitt guardando negli occhi Jared Leto suona naturalmente ridicola ed ipocrita, per allontanarsi da letture stantie e comprendere come proprio tale incoerenza, afferente il rapporto tra creazione artistica, apparato mainstream e fruizione di massa (argomento sul quale vale anche la pena di ascoltare le lucide riflessioni del grande Elio Petri in un’intervista del 1971, reperibile cliccando qui, lungi dallo svalutarla, sia invece alla base concettuale di un’opera che, ambendo hegelianamente ad “apprendere il proprio tempo col pensiero”, risulta perciò “informata” dalla frammentarietà, dalla contraddittorietà, dalla “doppiezza” (difatti che “…Edward Norton ha le turbe/non esiste nessun Tyler Durden”, per dirla con Caparezza, viene svelato sin dalla locandina), e in definitiva dalla mancanza di senso di esso.
Seguendo, è bene ricordarlo, la traccia letteraria di Chuck Palahniuk opportunamente riadattata da Jim Uhls, Fincher ci conduce nelle “viscere” della società occidentale di fine millennio (rispetto ad allora, inutile sottolinearlo, ulteriormente radicalizzatasi, tra debordante progresso tecnologico e stravolgimenti geopolitici) illustrando come certe pulsioni anarco-nichiliste (connotate da tendenze (auto)distruttive spesso ammantate da un confuso “maledettismo”) siano intrinsecamente connaturate al capitalismo postfordista in quanto sistema allo stesso tempo così alienante da creare diffusa perdita di identità (difatti il protagonista, un Edward Norton mai più così bravo, non ha nome) e di empatia (per cercare sollievo da ansia e depressione si sconfina nella pornografia del dolore, al punto da “imbucarsi” agli incontri dei gruppi di sostegno per malati di cancro…), che a tal punto totalitario da inglobare la sua critica e renderla “cool”: cos’è in fondo il “Tyler Durden” di un magnetico Brad Pitt, col suo misto di sociopatia, narcisismo, carisma e frasario da bignami del perfetto sovversivo, se non una proiezione di tutto questo, ossia, scomodando la psicanalisi, dell’Es freudiano?
Fincher, non a caso, in un finale cult diverso da quello del libro e ispirato a quello di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni, fa saltare per aria i grattacieli degli istituti di credito, emblemi dello strapotere della tecno-finanza affermatasi con la globalizzazione (Bret Easton Ellis nel 1991 col suo American Psycho aveva già fotografato in maniera straordinaria questo stravolgimento anche antropologico in divenire), col sottofondo (quantomai appropriato…) di Where’s My Mind dei Pixies, preconizzando tra l’altro due crolli che di fatto cambieranno la storia di lì a pochi anni, quello delle Torri Gemelle e quello della Lehman Brothers – attenzione però alla possibile duplice lettura di questa sequenza: se l’affrancamento dalla schiavitù del debito, metaforicamente evocata, è infatti un obiettivo politico sostanziale ed auspicabile, di contro sappiamo bene come terrorismo e bolle speculative facciano da sempre il gioco delle élites, le quali cavalcano queste “emergenze” per imporre metodi di sorveglianza sempre più capillari e socializzare le perdite con trasferimenti di ricchezza dal basso verso l’alto -; pur in presenza di istanze sacrosante, la strada del “cupio dissolvi” porta dunque al solo risultato, per eterogenesi dei fini, di potenziare le sbarre di quella “gabbia dorata” nella quale, come teorizzava Aldous Huxley, siamo tenuti prigionieri (il fatto che negli Stati Uniti dopo l’uscita del film siano stati effettivamente aperti dei fight club e che alcuni dei partecipanti avessero in animo di emulare il “progetto Mayhem” la dice lunga sullo smarrimento di una generazione – formata soprattutto dalla cosidetta classe media – alla ricerca della scarica di adrenalina per compensare il vuoto interiore, e quindi pronta ad immedesimarsi in immagini e parole “forti” travisandone il significato – fraintendimento che, come abbiamo visto, fa tuttavia perfettamente parte del “gioco”, come ha avuto modo di rimarcare anche lo stesso Fincher in una recente intervista (che puoi leggere a questo link) -, ma tragicamente incapace di concepire un orizzonte realmente emancipatorio; e non che, appunto, la situazione sia migliorata nel frattempo, anzi: di gente che vuole “distruggere qualcosa di bello” invece di crearlo ce n’è sin troppa in giro…).
Tra l’esiziale individualismo dell’esistenza competitiva e consumistica “a porzione singola” (che già Michel Houellebecq aveva tratteggiato in maniera mirabile nel suo folgorante esordio del 1994, Estensione Del Dominio Della Lotta) e la regressione a “scimmie spaziali” totalmente incapaci di libero arbitrio e dunque alla mercè del volere di un’autorità paternalistica, sia essa rappresentata da qualche “guru” o da un apparato statale (aggiornamento delle “arance ad orologeria” di Burgess/Kubrick), la via maestra per provare a cambiare realmente le cose rimane dunque quella di riappropriarci della nostre migliori specificità cognitive ed emotive, ossia della nostra umanità (“Questa è una persona! Un mio amico! Voi non lo seppellirete in giardino! …Ascoltatemi bene! Questo è un uomo e ha un nome, e il suo nome è Robert Paulsen, ok?!”), per accogliere di nuovo l’altro in un progetto condiviso (il protagonista si risveglia “suicidando” il demone che lo dominava e capisce che sente il bisogno di provare a costruire qualcosa insieme a Marla, ammettendo: “Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita!”): insomma, altro che apologia del machismo fascista, altro che istigazione al “situazionismo” bombarolo, siamo totalmente all’opposto.
L’autore di Denver (come farà di nuovo, da una diversa prospettiva, in Gone Girl), destruttura i topoi del noir passando proprio attraverso un’analisi della crisi del rapporto di coppia all’interno del paradigma postmoderno neoliberale (tema centrale se ce n’è uno, poichè chiama in causa l’istituto familiare e le sue ricadute sulla tenuta dell’architettura comunitaria): è l’uomo qualunque, in tale contesto, ad assumersi l’onere di una detection tutta interiore, combattendo per ricomporre a ritroso i pezzi di un “io” la cui scissione ha comportato anche la messa in discussione della figura femminile, la quale, in un incontro-scontro tra due solitudini, da potenziale compagna si è trasfigurata in alter ego della metà oscura e perciò nell’antagonista, una “dark lady” umbratile e apparentemente inafferrabile, sino all’agnizione conclusiva (da Marlowe a Marla ne è passata di acqua sotto i ponti, se mi si passa la freddura; a proposito di quest’ultima, è noto come la sua straordinaria interprete, Helena Bonham Carter, per modellare il personaggio si sia ispirata a Judy Garland: anche qui, quante connessioni tra “mondi” si potrebbero aprire – basti pensare al già recensito documentario Lynch/Oz per capire la pregnanza di questa figura nell’immaginario statunitense… -); operazione questa, ed è un aspetto sempre poco considerato, condotta anche con una buona dose di sarcasmo (termine che difatti significa letteralmente “lacerare la carne”).
Inutile sottolineare come Fincher piloti questo “treno” a forte rischio di deragliamento con la sfrontatezza di un armamentario tecnico che ormai viaggia su livelli siderali, mantenendo il controllo sulla forma pur senza rinunciare ad una regia di grande portata dinamica che ingloba con maestria le esperienze innovative nel videoclip e negli effetti visivi (uno stile iper-cinetico dal quale si farà prendere invece un po’ troppo la mano in un film altrimenti interessante e sottovalutato come Panic Room, dove, proseguendo nel discorso tracciato, affronterà la paranoia conseguente al post- 11 settembre) – tutto questo grazie anche al contributo fondamentale della fotografia lugubre dai toni marroni e verdognoli di Jeff Cronenweth, destinata a diventare un marchio di fabbrica, del millimetrico “taglia e cuci” di James Hayghood, dell’enorme lavoro scenografico di Alex McDowell, Chris Gorak e Jay Hart e di un sound design clamoroso ad opera di Ren Klyce e Richard Hymns al quale si aggiunge la stupenda colonna sonora curata dai Dust Brothers -. Fight Club, oscillando tra satira e cupa visionarietà, è cinema allo stesso tempo teorico e popolare che per potenza e rilevanza storica si colloca a fianco, in un’ideale trilogia, dei coevi Matrix e Eyes Wide Shut (opere che parlano a loro modo, in una commistione tra genere e suggestioni filosofiche ed esoteriche, del discrimine tra il semplice guardare e il vedere per davvero, nell’ottica di un percorso di consapevolezza “adulta”); e proprio perchè così amato, odiato, equivocato, vittima di pregiudizi, ha avuto la capacità di insinuarsi dentro di noi come un fotogramma subliminale che ogni tanto riemerge per metterci in guardia, tra uno sberleffo e un pugno in faccia, su chi siamo e dove stiamo andando.