Calcutta a Lisbona
Riascoltando le canzoni di Calcutta non riesco a non tornare con la mente ad un viaggio di ormai alcuni anni fa. Con gli amici di una vita, decidemmo di andare a Lisbona. Prima di partire, passeggiando per le strade che ci hanno visto crescere, ci dicevamo che quello sarebbe stato il nostro ultimo viaggio, l’ultimo viaggio della nostra giovinezza. Poi, forse, ce ne sarebbero stati altri, ma sarebbero stati molto diversi. Magari sarebbero venute con noi anche le nostre mogli (e i nostri figli). Questa volta, invece, saremmo partiti da soli, proprio come tanti anni prima, quando eravamo al liceo. Era quella, dunque, la nostra ultima estate?
L’associazione tra le canzoni di Calcutta e quel viaggio non è arbitraria. Voglio dire, non ha a che fare soltanto col fatto che all’epoca, nel 2017, Calcutta era all’apice del suo successo e noi ne ascoltavamo spesso le canzoni. Il collegamento tra noi quattro e le canzoni di Edoardo d’Erme è, se vogliamo, più profondo. Noi apparteniamo come Calcutta alla generazione di coloro che qualche anno fa stavano per compiere trent’anni: la precarietà esistenziale ed economica che Calcutta racconta nelle sue canzoni è proprio la nostra, di noi che siamo nati e cresciuti in un mondo molto diverso da quello che poi ci saremmo trovati di fronte una volta adulti, un mondo in cui era ancora possibile sognare di guadagnare bene col proprio lavoro, di arricchirsi (magari), di comprare una casa e metter su famiglia. Il mondo che Calcutta canta a squarciagola non è distante dal nostro: la voglia di stordirsi nel sesso è, se vogliamo, la nostra, una voglia del tutto diversa da quella delle generazioni che ci hanno preceduto. L’incapacità di dare un senso stabile alle proprie esperienze e di guardare alla vita come ad una costruzione che approderà (infine) a qualcosa di qualitativamente diverso (e di più completo) da questa (eterna) giovinezza, è qualcosa che ci riguarda direttamente.
Come è noto, Calcutta è lo pseudonimo di Edoardo d’Erme, cantante nato a Latina nel 1989. Ha all’attivo tre dischi: Forse… (2012), Mainstream (2015), ed Evergreen (2018); gli ultimi due, pubblicati dall’etichetta Bomba Dischi, hanno avuto un grande successo e molti singoli in essi contenuti hanno raggiunto i primi posti nella classifica delle canzoni più ascoltate in Italia. In un’intervista a Io donna, qualche anno fa Calcutta dichiarava di pensare spesso a ritirarsi dalle scene musicali. Anche se non lo farò mai, precisava, è una cosa che mi aiuta a calmarmi, e a pensare che una via d’uscita dall’«ingranaggio» è sempre possibile. E, invece, finito il tour 2018-2019 Calcutta scompare, non fa più concerti né appare in pubblico. Da allora non sono usciti suoi nuovi album, solo qualche singolo in collaborazione. Nel 2021, su Instagram, il cantante aveva annunciato che entro la fine dell’anno sarebbe uscito il suo nuovo disco, ma per il momento ancora nulla.
Surrealismo, dadaismo e postmodernità: alcuni cenni sull’estetica calcuttiana
Esco o non esco?
Fuori è caldo
Ma è normale ad agosto
(Pesto)Lo sai che la Tachipirina Cinquecento
se ne prendi due
diventa mille?
(Paracetamolo)
Nelle sue canzoni, Calcutta utilizza frasi quotidiane che, isolate dall’usuale contesto, finiscono per acquistare un significato differente, producendo nell’ascoltatore un effetto comico e straniante. L’effetto comico è nient’altro che la conseguenza delle aspettative implicite che l’ascoltatore ha naturalmente di fronte a una canzone: di solito, ci aspettiamo un racconto coerente o, per lo meno, parole semplici e ripetute (come nel caso dei tormentoni estivi) e non lunghe frasi che sembrano estrapolate da un discorso. Quando ascoltiamo le canzoni di Calcutta ci imbattiamo in periodi tipici del linguaggio parlato, frasi alle volte talmente semplici che non ci prenderemmo la briga di trascriverle su un diario. Sono tali aspettative disattese a produrre un effetto nell’ascoltatore che ha del comico. A quest’effetto, poi, se ne aggiunge un altro: quello straniante. Le canzoni del cantautore di Latina, infatti, non solo riprendono delle frasi quotidiane in un contesto diverso da quello che sembrerebbe il loro proprio, ma non riconnettono poi tali periodi in un filo logico e il risultato è che le parti del testo risultano spesso scollegate e soltanto giustapposte, accostate l’una all’altra senza rispettare una consequenzialità di ordine logico. In altre parole, queste canzoni non sono solo composte da frasi decontestualizzate ma anche tra loro sconnesse. Per cui:
Suona una fisarmonica
Fiamme nel campo rom
Tua madre lo diceva
Non andare su YouPorn(Gaetano)
Mangio la pizza e sono il solo sveglio
In tutta la città
Cammino dritto fino al tuo risveglio
E stanotte se ci va
Noi a questa America daremo un figlio
Che morirà in Jihad
(Frosinone)Lo sai che la Tachipirina Cinquecento
Se ne prendi due
Diventa Mille?
Si vede che hai provato qualcosina
Parlano, parlano le tue pupille!
(Paracetamolo)
Insomma, i versi si dipanano spesso sospinti dalla musicalità e dalla rima piuttosto che dallo svolgersi di un racconto coerente, così come le immagini, che si giustappongono senza mai arrivare a raccontare una storia compiuta (e ciò anche per il sovrapporsi, senza soluzione di continuità, di una narrazione realistica ad una metaforica, inframezzate da espressioni che sembrano estrapolate da un dialogo o riprese dai titoloni di un TG). Tutti questi elementi finiscono per comporre quello che più che a un brano musicale assomiglia ad un collage. Una tecnica compositiva, questa, che non va però confusa con quella di tante canzoni pop (ad esempio, i tormentoni cui si accennava prima) il cui testo risulta completamente subordinato ad esigenze musicali e ritmiche (non importa che abbia un senso, basta sia orecchiabile). Nelle canzoni di Calcutta, invece, la bellezza delle immagini, la raffinatezza delle metafore, l’utilizzo deliberatamente provocatorio di lunghe frasi colloquiali (e non di semplici parole ripetute), le associazioni di periodi senza un nesso logico, producono un effetto ben calibrato, di grande originalità e valore estetico, un effetto che si avvicina molto a quello prodotto dalle libere associazioni surrealiste o dai collage dadaisti:
Fuori è notte
E mangio il buio col pesto
Non mi piace
Ma lo ingoio lo stessoO, qualche strofa dopo:
Uè deficiente
Negli occhi ho una botte che perde
E lo sai perché
Perché mi sono innamorato
Mi ero addormentato di teee(Pesto)
Questa riflessione implicita sul senso dell’arte (su ciò che si può dire e non si può dire in una canzone) è anche tipica della postmodernità letteraria. È insito nella postmodernità, infatti, riprendere stili, linguaggi ed espressioni passate o usuali ridando loro nuovo significato, con un effetto comico e paradossale. Esempio di ciò sono lo stesso pseudonimo del cantante, che ha deciso di chiamarsi come una città (in un’intervista a Repubblica.it, dichiara che il nome è nato per scherzo, con gli amici: può darsi che si tratta dell’effetto di un’estemporanea e goliardica associazione con la parola “indie”?), e i titoli delle sue canzoni: Paracetamolo, Pesto, Gaetano, ecc., nomi propri o comuni, troppo comuni, tradizionalmente inadatti ad essere utilizzati come titoli per dei brani musicali. Inoltre, come uno scrittore postmoderno Calcutta si rifiuta di attribuire, attraverso le sue canzoni, un senso univoco alle proprie esperienze (e dunque a quelle dell’ascoltatore), che si giustappongono al pari dei versi e delle strofe senza mai connettersi in una compiuta visione del mondo (questa sembra la ragione profonda della composizione a mo’ di collage). Insomma, in queste canzoni lavare i piatti o innamorarsi, lavorare o mangiare una pasta scaldata, avere un amplesso o sentirsi soli, vedere un film o lasciarsi per sempre sono esperienze che sembrano avere lo stesso valore nella gerarchia dei momenti che costellano la vita di un uomo, cose utili o inutili allo stesso modo quando si tratta di dare un senso alle nostre esistenze che, in quest’epoca più che mai, avvertiamo come irrimediabilmente frammentate. In questi affreschi postmoderni Calcutta (ne sia egli consapevole o meno) celebra lo smarrimento dell’uomo contemporaneo e ciò – è questa forse la ragione del grande successo di questa canzone – produce nell’ascoltatore un effetto liberatorio. Ascoltando questi brani ci sentiamo via via liberati, e non tanto (astrattamente) dal compito di dover dare un senso alle nostre esistenze quanto (molto più concretamente) dal dolore come dalla scelta, dalla colpa come dal ricordo e e dal tentativo (sempre esposto a frane improvvise) di proiettare la nostra vita in un futuro migliore. Insomma, ascoltare queste canzoni significa anestetizzarsi o, se vogliamo, fare un lungo viaggio di purificazione in una terra in cui i peccati ci vengono rimessi prima ancora di averli commessi: perché il peccato, come il dolore, ha ragion d’essere soltanto in una dimensione significativa:
E ho fatto una svastica in centro a Bologna
Ma era solo per litigare
Non volevo far festa e mi serviva un pretesto
Per lasciarti andare
(Gaetano)E allora dimmi che cosa mi manchi a fare
Ti prego dimmi che cosa mi manchi a fare
Tanto mi mancheresti lo stesso che cosa mi manchi a fare
Ti prego dimmiii
(Cosa mi manchi a fare)Ti chiedo scusa per l’appartamento
E la rabbia che mi fa
Non ho lavato i piatti con lo Svelto
E questa è la mia libertà
(Frosinone)
I temi delle canzoni: il sesso, la precarietà economica e la solitudine
Protagonista assoluto delle canzoni di Calcutta è sicuramente il sesso:
Tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande
…Come stai?
[…]
Mi hai chiesto un orgasmo profondo
Forse più profondo del mondo,
Ma mi hai dato le spalle
E adesso tutte le strade
Mi portano ad altre campagne
(Orgasmo)
Orgasmo è una delle canzoni più celebri di Calcutta (criticata quando uscì, nel 2017, per la campagna di guerrilla marketing che precedette la pubblicazione del video su YouTube), con alcuni versi che sono diventati iconici. In Orgasmo la storia fra il cantante (o il suo alter-ego letterario) e la ragazza a cui si rivolge (le canzoni di Calcutta si riferiscono sempre a un “tu”) è raccontata con una sottile malinconia perché alle immagini di sesso, in questo immaginario dialogo, si alternano le parole che il cantante ci fa avvertire come le più significative:
In che punto finisce la nebbia in questa pianura
…Come stai?
Dove perdersi quando fa buio e mi fa paura
Ecco un bacio stampato fra il mento e la scollatura
…Come stai?
Dove perderti quando fa buio e ti senti sola
Il sesso di cui racconta Calcutta non è però un sesso collegato con l’amore se non accidentalmente. Inoltre, il sesso e l’innamoramento in queste canzoni sono sempre considerati come nient’altro che una forma di oblio di sé, e questo non solo in Orgasmo ma anche, ad esempio, in Pesto:
Negli occhi ho una botte che perde
E lo sai perché
Perché mi sono innamorato
Mi ero addormentato di teee
Oppure, in Cosa mi manchi a fare:
Ma io ti dichiaro dentro una tv
Che io da te non ho voluto amore
Volevo solo scomparire in un abbraccio
Volevo solo scomparire in un abbraccio
Se parliamo di sesso, tra le canzoni di Calcutta non si può poi non citare Kiwi, forse la più esplicita di queste canzoni che, al pari delle altre, è piena di splendide metafore a sfondo sessuale:
Vestiti come ti pare
Mettiti tutto il profumo che io possa odorare
Fammi vedere il campo di Kiwi
Dove mi vuoi seppellireSuonano queste campane
Mettimi sotto il cuscino un alveare
Tanto quello che voglio da te, quello che voglio da te
È farmi pungicare, è farmi pungicare
Oppure, parlando di metafore, è opportuno riprendere un celebre passaggio di Cosa mi manchi a fare:
Raggiungermi è un orgasmo da provare
Ricordami le olive sono buone
Mi prenderò un gelato con il tuo sapore
Ti spaccherò la faccia se non mi dai il cuore
Tutte le canzoni citate fino a questo momento parlano di sesso, di storie finite male, di una passione che brucia e si spegne in fretta. Forse l’unica canzone in cui si racconta di un amore semplice e duraturo è proprio quella in cui sembra che il cantante parli d’altro, in cui né l’amore né il sesso vengono mai citati, e cioè Limonata, che racconta di un’amica di vecchia data che lavora in un bar:
Tu spremi limonata e non ce la fai più
Tu spremi limonata e non ce la fai più
Salutami tua mamma che è tornata a Medjugorje
E non mi importa niente di tuo padre
Ascolta De Gregori
[…]
Ma io vorrei restarti accanto se fossimo bambiniGuardare il cielo da fessure come i topi nei tombini
Ma tu giri l’insalata e non ce la fai più
Stai a dieta da una vita e non ce la fai più
Proprio Limonata racconta di un lavoro usurante e ripetitivo, un lavoro in cui l’urgenza della quotidianità (a cui si aggiunge, forse, la monotonia della vita di provincia) riesce a schiacciare qualsiasi aspirazione più alta, una ripetitività sottolineata dal ritmo cadenzato della melodia e dell’arrangiamento scarno. Il tema del lavoro e della precarietà economica ritorna in Del verde:
Preferirei che non esistesse al mondo
Nemmeno la città più bella che io abbia vistoPreferirei perderti nel bosco
Che per un posto fisso
[…]
Ti presterò i miei soldi per venirmi a trovareTi presterò dei soldi per venirmi a trovare
Oppure, in Pesto:
Dai, non fa niente
Mi richiamerai da un call center
E io ti dirò
Lo sai che io ti dirò?
Un altro tema ricorrente nelle canzoni di Calcutta è poi la solitudine (spesso associato alla notte):
Mangio la pizza e sono il solo sveglio
In tutta la città
Bevo un bicchiere per pensare al meglio
Per rivivere lo stesso sbaglio…[…]
Io ti giuro che torno a casa e mi guardo un film
L’ultimo dei Mohicani, non so di chi
Io ti giuro che torno a casa, non so di chi
Io ti giuro che torno a casa e non so di chi
(Frosinone)Esco o non esco?
Fuori è notte, mangio il buio col pesto
Non mi piace ma lo ingoio lo stesso
(Pesto)
Solitudine presente anche in Natalios, in cui il ritmo lento e cadenzato e l’arrangiamento essenziale scandiscono una notte di Natale passata in solitudine, vagando per le strade gelate della città:
Ventitré e cinquantanove
Le luci in chiesa vanno viaMa dove sta la vita mia?
Ma dove sta la vita mia?[…]
Io non voglio andare in giro da solo
È la notte di Natale anche per me
Io non voglio andare in giro da solo
È la notte di Natale anche per me
La fine del viaggio
Di quel viaggio a Lisbona resta oggi soltanto una foto. Siamo in tre (il quarto quella mattina non era voluto venire), siamo in piedi sulla spiaggia e sorridiamo. Abbiamo i capelli lunghi e arruffati dal vento e, dalla testa alle caviglie, siamo coperti dal tessuto nero di una spessa muta impermeabile. Di lì a poco ci saremmo tuffati nell’acqua gelida dell’oceano e avremmo preso la nostra prima lezione di surf. Dentro di me, posso ancora avvertire la sospensione di quei lunghi viaggi in macchina, gli schiaffi del vento sulla faccia, il paesaggio brullo e sempre identico che scorre fuori dal finestrino. I silenzi prolungati che d’improvviso spegnevano la nostra euforia, continuando a scavare una distanza ormai incolmabile tra le nostre vite e marcando la differenza rispetto ai nostri primi viaggi insieme, quelli di quando eravamo ancora ragazzini. In qualche modo, solo ora realizzo di essere tornato da quel viaggio, proprio ora che lo sto raccontando, attraverso le canzoni di Calcutta. Precarietà e solitudine – che all’epoca si stavano appena affacciando sulle nostre vite – fanno ormai parte stabile delle nostre esistenze, così stabile che neanche ce ne accorgiamo più. E quando capita che ci incontriamo, quasi per caso, per le vie della nostra città natale, il nostro rapporto si conforma a un saluto formale o a qualche chiacchiera cordiale e, se brindiamo, lo facciamo implicitamente all’amicizia che ci legava un tempo e a una gioventù passata. Al termine di uno di questi incontri, ho sfruttato la possibilità di un passaggio in auto offerto da uno di loro. Ad un certo punto, per un caso è passata alla radio una canzone di Calcutta. Mi ha trafitto un ricordo. L’abitacolo per un attimo mi è sembrato di nuovo immerso nella luce. Ma quando un sorriso di complicità si stava per stampare sul mio volto, con un colpo d’indice, il mio amico ha cambiato stazione.